(Panorama) Domenica 4 novembre la vittoria in Guatemala dell’imprenditore progressista Alvaro Colom sul generale in pensione Otto Pérez Molina, conservatore, ha posto l’ennesimo tassello al mosaico politico latinoamericano, sempre più orientato a sinistra. Basti pensare che, in tutta l’America Latina oggi solo Messico, Colombia, Paraguay, Honduras ed El Salvador sono governati dalla destra o dal centro-destra. Inoltre, se si pensa che il prossimo aprile si voterà ad Asunción (Paraguay) dove, stando ai sondaggi, potrebbe vincere l’ex vescovo Fernando Lugo, sospeso a divinis dal Vaticano a causa della sua decisione di candidarsi e vicino alla Teologia della Liberazione e al venezuelano Hugo Chávez, quella che gli analisti definiscono la “rivoluzione rossa” del continente sembrerebbe inarrestabile. Cosa sta accadendo in America Latina e, soprattutto, come si pongono gli Stati Uniti di fronte a questi mutamenti?
“Giardino di casa” bye bye
Cominciamo col dire che, dal punto di vista delle relazioni internazionali, il ruolo tradizionalmente rilevante degli Stati Uniti d’America nella regione è stato “rivoluzionato” a causa, prima, del crollo del Muro di Berlino nel 1989, poi dell’attacco alle Torri gemelle nel 2001: un evento che ha spostato il focus nell’agenda di Washington su altri fronti caldi dello scacchiere internazionale. Quello che, a partire dalla dottrina Monroe (1823), era considerato dalla Casa Bianca il “patio trasero”, ovvero il “giardino di casa” dei nordamericani, ha finito per conquistare, grazie al progressivo disimpegno nordamericano nell’area e all’implosione dell’Impero sovietico, spazi di libertà politici impensabili sino a vent’anni fa: non è un caso che la cosiddetta “rivoluzione rossa” latinoamericana si è potuta esprimere proprio in una fase storica in cui gli interessi economici e geostrategici di Washington sono indirizzati essenzialmente all’Asia, al Medio e all’Estremo Oriente.
Le divisioni tra “vegetariani” e “carnivori”
“Il nostro debito interno è caro e c’è spazio per un indebitamento estero a costi minori. Manterremo e rafforzeremo le relazioni con gli Stati Uniti di cui, storicamente, siamo sempre stati buoni soci”. Ad avere pronunciato queste parole nelle sue prime dichiarazioni post-elettorali non è il presidente colombiano Álvaro Uribe (destra) o quello messicano Felipe Calderón (centro-destra), bensì il neoeletto presidente guatemalteco Colom (centro-sinistra). Parole che tradotte stanno a significare. Primo: siamo ben felici di indebitarci con organismi internazionali (Fmi e Banca Mondiale) per generare sviluppo interno. Secondo: la politica economica e commerciale con Washington non cambia di una virgola con me alla presidenza.
Non a caso il principale quotidiano guatemalteco ha già arruolato Colom in quella che Álvaro Vargas Llosa ha definito la nuova “sinistra vegetariana”, ovvero riformista, contrapposta a quella “carnivora”, ovvero radicale. Questa divisione, nonostante il parallelo culinario un po’ folkloristico, calza a pennello per descrivere le divisioni che, ogni giorno, contraddistinguono la cosiddetta “rivoluzione rossa” latinoamericana.
Come porre sullo stesso piano, infatti, il Cile della socialista Michelle Bachelet, che fa della stipula dei trattati di libero scambio la sua priorità economica (ad oggi Santiago ne ha già firmati una sessantina con altrettanti paesi in ogni continente) con la battaglia dura e pura che contro questo strumento commerciale che porta avanti quotidianamente il bolivariano Chávez? Chi non ricorda il grido “Alca, Alca, al carajo” urlato nei microfoni a Mar del Plata un paio d’anni fa dal presidente del Venezuela in riferimento al fallimento dei negoziati sull’Area di libero commercio delle Americhe?
Il Brasile di Lula, sotto la cui presidenza la Borsa nazionale non ha mai guadagnato tanto e la moneta locale, il real, si sta valorizzando persino sull’euro, che punti di contatto ha, al di là delle parole, con la politica economica inflazionistica e con le svalutazioni “competitive” dell’Argentina dei Kirchner?
Come spiegare le pressioni di Chávez sul primo presidente indio della storia della Bolivia, Evo Morales Aymara, affinché velocizzasse il processo di nazionalizzazione degli idrocarburi con la conseguenza che ad essere colpite oggi non sono state tanto le multinazionali statunitensi bensì la brasiliana Petrobras e l’ispano-argentina Repsol-Ypf? Se l’obiettivo della misura presa da Morales e sponsorizzata dal suo “amico” Chávez era anti-Washington, il risultato è che ora i 30 milioni di metri cubi prodotti ogni giorno in Bolivia, pari al 50% del gas consumato in Brasile e al 75% di quello del motore industriale São Paulo, stanno costando quasi il doppio all’“amico” Lula. Stesso dicasi per i 7 milioni di metri cubi importati, quotidianamente dall’“amico” Kirchner. E che dire del Mercosur oramai bloccato da mesi sulla questione dell’ammissione a pieno titolo come paese membro del Venezuela dal palamento del Brasile i cui membri sono stati definiti qualche mese fa da Chávez “pappagalli dell’Impero”? O delle minacce di un altro “vegetariano”, il presidente uruguayano Tabaré Vasquez che un anno fa, da Washington, è sbottato “Così com’è il Mercosur non serve. Noi usciamo”?
Il “fattore Chávez” che fa impennare le spese militari
La divisione tra i governi della sinistra “vegetariana” della Bachelet in Cile, Lula in Brasile, Tabaré Vasquez in Uruguay e Alain García in Perù da un lato e quelli “carnivori” di Chávez in Venezuela, Morales in Bolivia, Correa in Ecuador, Ortega in Nicaragua e Cristina Kirchner in Argentina (una novità, questa, ancora da verificare) è stata ripresa anche dal quotidiano brasiliano La Folha di San Paolo che, domenica 4 novembre, ha spiegato la corsa al riarmo dei paesi della regione come conseguenza dell’abnorme shopping militare fatto negli ultimi due anni dal presidente venezuelano. Il Brasile aumenterà nel 2008 del 30% le sue spese militari mentre dal canto suo la Russia ha già detto di volere triplicare nei prossimi anni le vendite di armi a Caracas. La “rivoluzione rossa”, insomma, per ora si arma ma la cosa curiosa è che alcuni dei governi di sinistra questa volta lo fanno non per contenere l’imperialismo statunitense bensì il bolivarismo dell’ex tenente-colonnello Hugo Chávez i cui sogni rivoluzionari non si limitano più al Venezuela ma si stanno espandendo a macchia d’olio, grazie anche ai petrodollari, sul piano continentale.
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