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lunedì 2 giugno 2008

Le nozze gay a L'Aquila, i promotori: "Non ci vergogneremo mai del nostro amore".

Dure critiche all’Arcivescovo dai promotori e dai Verdi. L’ex assessore Dionisio invece invita i bambini a giocare altrove.
(Il Messaggero) Polemiche in città dopo l’annuncio di Verdi, Arcigay “Consoli”, Arcilesbica Amazzoni e Stargayte di matrimoni gay, lesbo, transessuali ed etero friendly, il prossimo primo giugno, presso il viale all’entrata principale del Castello Cinquecentesco. All’Arcivescovo Giuseppe Molinari, che ha richiamato l’opinione pubblica al «rispetto del concetto di famiglia» e sottolineato il rischio che L’Aquila appaia come una realtà che si presta e accetta certi atteggiamenti, ha risposto ieri l’altro il sindaco, Massimo Cialente, per il quale la scelta della città dimostra come «sia culturalmente aperta». ieri, i Verdi (tra i promotori) rispondono «che i matrimoni saranno una cerimonia laica da celebrare in un luogo laico, dunque esente da qualsiasi appropriazione religiosa indebita». «Inoltre è necessario ribadire che avranno carattere puramente simbolico». «L’Aquila è la città di tutti», aggiungono, «è la città dunque anche delle differenze». Arcilesbica “Amazzoni” dal canto suo, si dice sicura che «proclami come quello di monsignor Molinari, contribuiscano a delle vere e proprie escalation di violenza xenofoba e omofoba». Infine, un messaggio agli aquilani dai promotori: «La manifestazione non è e non sarà mai di offesa a nessuno dei cittadini e nè tanto meno una mancanza di rispetto a questa città che vive sotto mille colori e sotto mille voci soffocate dai tuoni ecclesiastici. Cosa certa è che non ci vergogneremo mai del nostro amore».

Nei giorni scorsi l’avvocato Maurizio Dionisio, ex assessore comunale, aveva invitato i cittadini, «adusi alla frequentazione del Parco del Castello unitamente ai loro figli, di vigilare affinché il 1° giugno i piccoli vadano a giocare altrove. Libertà è anche impedire ai nostri figli di assistere a uno spettacolo indegno». Sulla stessa lunghezza d’onda Claudia Pagliariccio di La Destra che sottolinea «il danno morale e di immagine che la città subirebbe». Infine le associazioni Sinistra Critica e Spazio Libero 51 «salutano questo avvenimento con condivisione e si fanno portatrici del messaggio di amore tra le persone che con questa bella iniziativa tocca la nostra città superando ogni steccato sull’orientamento sessuale di ognuno».

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Moda in lutto: morto Yves Saint Laurent.

Muore uno dei maestri della moda, Yves Saint Laurent si è spento a Parigi.
(The instablog) E’ morto a Parigi all’età di 71 anni, lo stilista che ha rivoluzionato la moda femminile: Yves Saint Laurent.

Malato da molti anni, si era ritirato dal mondo della moda, trasformando l’atelier in fondazione nel 2002. Fu il fautore della linea "Trapèze", eliminando la moda della vita da vespa, si ispirò ai grandi pittori, e inventò il tailleur-pantalone e lo smoking al femminile.

Collaboratore di Christian Dior, ben presto dovette "mettersi in proprio" perchè le sue idee così innovative, cozzavano quel quelle dell’epoca.

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Sono gay. Ma non faccio outing.

Marco è un ragazzo genovese di 29 anni. Ha rivelato la propria omosessualità solo agli amici più cari. Si è confidato con mentelocale.it
(Francesca Baroncelli- Mentelocale) Lo chiameremo Marco. Un nome di fantasia dietro cui si nasconde tutto un mondo. Lui è un ventinovenne genovese come tanti. La sua omosessualità è un segreto che oggi non si sente di rivelare a nessuno, o quasi.

Quando ti sei reso conto di essere gay?
«A circa vent’anni. Prima avevo avuto qualche segnale, ma inconsciamente continuavo a ricacciarlo: me ne rendo conto solo adesso».

Qual è la prima cosa che hai pensato di fare?
«Mi sono rifugiato in internet. La rete mi ha permesso di affacciarmi, seppur timidamente, su un mondo che non conoscevo, cercare informazioni, capire le reazioni della gente a quello che io consideravo un mio problema. Così ho scoperto le chat, che mi hanno permesso di parlare e confrontarmi in modo anonimo con altri ragazzi omosessuali».

Il nuovo ministro delle Pari Opportunità Mara Carfagna ha dichiarato che gli omosessuali non sono discriminati: sei d'accordo?
«Non ho mai avuto esperienze dirette di discriminazione. In generale mi sembra che spesso i gay siano guardati con una simpatia che troppo assomiglia alla compassione. L’omosessualità dovrebbe essere considerata una delle tante sfaccettature della sessualità, ma siamo ancora ben lontani da questo. In Italia ci sono città in cui i gay preferiscono nascondersi: la chiusura è la prima forma di discriminazione. Non veniamo presi in considerazione dalla Stato e tempo fa il ministro Carfagna ha dichiarato: “Non c'è ragione per la quale lo Stato debba riconoscere le coppie omosessuali. I gay sono costituzionalemente sterili”».

Qual è il rapporto con la tua città?
«Genova è ancora troppo chiusa nei confronti dei gay. Non mi fa venire voglia di aprirmi».

Hai mai parlato con i tuoi genitori della tua omosessualità?
«No».

E com’è andata con gli amici?
«Solo quelli più stretti sanno che sono gay: con loro non volevo continuare a recitare una parte. Frequento altre persone a cui potrei parlare, ma temo di rovinare il mio rapporto con loro. Il fatto di non potermi aprire mi ha portato negli anni a chiudermi sempre più in me stesso».

Come vanno le cose nell’ambiente di lavoro?
«Ovviamente non lo sa nessuno. Con gli amici stretti ho la possibilità di rapportarmi, mentre i colleghi non me li sono scelti».

Parliamo d’amore. Il fatto che i gay preferiscano le avventure di una notte alla storia seria è un luogo comune piuttosto diffuso. È tutto vero?
«La spensieratezza delle storie gay fa parte dell’immaginario collettivo. In realtà c’è chi cerca il vero amore e chi invece preferisce le avventure, così come succede tra gli eterosessuali. La mia storia, che ormai va avanti felicemente da qualche anno, ne è la prova».

Cosa provi quando ti confronti con persone che non sanno della tua omosessualità?
«Se si tratta di estranei non ci penso proprio. Ma quando una semplice conoscenza si trasforma in amicizia cominciano i problemi: loro si confidano con me, ma io non posso fare lo stesso e ci sto male».

Il tuo ragazzo ha fatto outing. Cosa pensi della sua scelta?
«Ha fatto bene e lo invidio. Lui ha tanti amici che gli vogliono bene per quello che è. Io invece non ho dato loro la possibilità di esprimersi e di accettarmi per quello che sono».

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L’omofobo Ahmadinejad arriva a Roma. Gli omosessuali italiani contro i cappi in piazza di Teheran.

Nel regime khomeinista essere gay è un reato. Per sodomia si finisce sulla forca, 4000 esecuzioni dal 1980.
(Il Foglio) L’articolo 109 del codice penale iraniano condanna l’omosessualità. E per chi commette il “lavat” – il reato di sodomia – è prevista la morte, sebbene, come specifica un report del 2007 di Amnesty International, la decisione spetti “alla discrezione del giudice”. I magistrati di Teheran si sono dimostrati piuttosto inclini alla discrezionalità, ma a senso unico: dal 1980 a oggi circa quattromila “raguus”, gli effeminati, i “frocetti”, sono passati tra le mani impietose del boia. Un’attività trentennale di sterminio, scoperta solo negli ultimi dieci anni dall’opinione pubblica occidentale: la barbarie delle impiccagioni in piazza, delle torture praticate dalla “polizia morale” al fine di strappare una confessione: sono un “raguus” e pratico la sodomia. La confessione, estorta con la violenza, è la condizione necessaria – spiega una denuncia di Amnesty – per procedere con la condanna a morte.

Mahmud Ahmadinejad, il presidente iraniano che ospite alla Columbia University di New York l’anno scorso ha negato l’esistenza di omossessuali nel proprio paese – “da noi in Iran non c’è ne sono” – in soli tre anni si è distinto per ferocia. Due mesi dopo la visita di Ahmadinejad alla Columbia, in Iran è stato ucciso Makwan Moloudzadeh, un ragazzo di ventun’anni colpevole di aver avuto rapporti sessuali con un altro maschio. Una relazione consumata otto anni prima del processo, quando Makwan aveva solo tredici anni. E’ stato ucciso la mattina del 5 dicembre, a Kermanshah, lembo estremo dell’Iran, al confine con il Kurdistan, nella grande città aperta che gli imperatori dell’antica Persia avevano eletta capitale culturale dell’Impero. Appeso a una corda nel cortile della prigione, a sorpresa, quasi di nascosto, perché di solito le esecuzioni di omosessuali, al tempo di Ahmadinejad, avvengono in pubblico, per dare l’esempio. Anche per strada. Si viene scaricati di fretta da un pick up Ford, prostrati a terra da uomini incappucciati, e lapidati o impiccati sul posto.

E’ accaduto migliaia di volte – quattromila morti – dalla presa del potere dei khomeinisti a Teheran. Nel 2005, anno primo del governo Ahmadinejad, l’opinione pubblica mondiale è rimasta inorridita dalle foto di due ragazzini, di diciotto e sedici anni, appesi al cappio, sulla piazza di Mashhad, la città santuario degli sciiti; due bambini colpevoli anche loro, perché sodomiti, omosessuali. Si chiamavano Mahmoud Asgari e Ayaz Marhoni, erano noti in città per i loro gusti “anomali”, così quando una sera sono scomparsi, arrestati dalla polizia morale, dalla guardia dell’ortodossia, nessuno si è scomposto. Condannati alla frusta – duecentoventotto colpi si racconta – i due ragazzi hanno trascorso quattordici mesi in prigione, prima d’essere ammazzati. Le foto dei loro corpi senza vita hanno fatto il giro del mondo, sgomento. Il governo olandese annunciò la sospensione d’urgenza dei rimpatri di cittadini iraniani illegalmente immigrati e modificò le norme di asilo, estendendo tra le motivazioni politiche e razziali, nel caso dei migranti iraniani, anche l’omosessualità.

Per ridurre le critiche, il governo di Ahmadinejad – raccontano gli operatori umanitari – spesso affianca al reato di omosessualità delle accuse diverse, come il furto o lo stupro, immaginando così di rendere più accettabile all’occidente la condanna a morte dei “raguus”. Dal 2005 il regime è anche più attento a che le foto degli impiccati non escano dal paese. “Forse quando Ahmadinejad dice che in Iran non ci sono omosessuali, crede di dire la verità – sostiene Franco Grillini, leader morale dell’Arcigay – Hanno avvilito migliaia di esseri umani, al punto da costringerli a nascondersi, per evitare la morte”. Quando i giovani Mahmoud e Ayaz furono impiccati, in Italia, Grillini, presidente onorario dell’Arcigay e allora senatore dei Ds, presentò un’interpellanza parlamentare perché “di fronte all’enormità dell’omicidio omofobico non si può tacere”.

Così oggi, a pochi giorni dal previsto arrivo a Roma del presidente iraniano, Grillini non ha dubbi: “Non è il benvenuto, è un mostro come Mubutu, il sanguinario dittatore omofobo del Congo. Arriva nella settimana del Gay Pride – dice – e ci noterà, perché faremo una conferenza stampa, un presidio. Ci stiamo lavorando”. Le associazioni omosessuali organizzano una grande manifestazione con i Radicali, con in prima fila Sergio Rovasio, ma anche con cattolici, ebrei e dissidenti iraniani. “Una mobilitazione collettiva – racconta Anita Friedman, ideatrice dell’associazione ebraica Gerusalemme libera – che probabilmente confluirà con quella del Riformista, martedì 3 giugno alle ore 20 in piazza di Spagna. Sarà il nostro ‘non benvenuto’ ad Ahmadinejad”.

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Sabelli Fioretti porta in libreria Grillini, Cossiga, Bondi e Travaglio.

Marco Travaglio
(Filippomaria Battaglia - Panorama) Franco Grillini, Francesco Cossiga, Sandro Bondi e Marco Travaglio. Probabilmente, chiusi in un’unica stanza, litigherebbero all’infinito. In libreria, sono invece l’uno accanto all’altro. Claudio Sabelli Fioretti li ha infatti intervistati per l’editore Aliberti, nella collana da lui diretta e che porta le sue iniziali “CSF”. Quattro libri-intervista, che si leggono con rapidità e con un certo divertimento, al tempo stesso capaci di svelare qualche aneddoto significativo.Si parte con il dialogo con il Presidente emerito della Repubblica (L’uomo che non c’è pp.146, euro 14) : nella Dc - sostiene Cossiga “non mi hanno mai preso in considerazione… Non ho mai contato nulla. Uno degli argomenti portati da Andreotti alla mia elezione alla presidenza della Repubblica era che non contando nulla nel partito non mi sarei avvalso della carica per modificare l’equilibrio interno alla Dc…”.

Si prosegue con l’intervista al neoministro Sandro Bondi, che racconta il primo incontro con Silvio Berlusconi: “Mi disse a bruciapelo: ‘Lei di che partito è?’ Ero imbarazzato. Ma glielo confessai: ‘Sono del Partito Comunista Italiano’. Mi disse: ‘ Lei sembra una persona perbene. Come mai è comunista?’”.
E si finisce con i pamphlet dedicati a Franco Grillini (Gay. Molti modi per dire ti amo, pp.180 euro 14) e Marco Travaglio (Il rompiballe, pp.138, euro 15). Quattro libri che si leggono in poco più di un’ora l’uno, utili a tracciare un ritratto al carboncino di uomini che in comune non hanno molto a che spartire.

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Mamma, mamma e figlia

(Davide Varì - Liberazione) «Ma perchè diamine devo sempre dimostrare di essere una brava mamma?». Costanza, 40 anni circa, lo dice in modo ironico, ma il fatto che la sua maternità sia sempre discussa, scannerizzata e giudicata inizia a diventare decisamente irritante. Il "problema" è che sua figlia Alice, due anni appena compiuti, di mamme ne ha due: "mammaCo" "e mammaMo", mamma Costanza e mamma Morena.
Sono una famiglia "arcobaleno" loro. Una delle tante famiglie omogenitoriali che vivono in questo Paese e che questo stesso Paese, quando non gli fa la guerra, semplicemente ignora. Il Paese delle istituzioni però.
Questa miriade di gruppi famigliari omogenitoriali sparsi in tutta italia, ha infatti dei vicini dei casa e dei colleghi; ha a che fare con le maestre dei propri figli e con i genitori dei loro compagni di scuola. Insomma, ha una rete sociale, esattamente come tutte le altre famiglie italiane. Una rete che non solo non ignora la loro situazioni ma che, nelle stragrande maggioranza dei casi, ci convive con serenità: «Quando è nata Alice i vicini ci hanno riempito di regali: culla, vestitini, giochi...».
Dunque l'inviolabilità della famiglia cosiddetta naturale - madre, padre e figlio - esiste solo nelle parole di qualche politico in cerca di santità o, al più, di qualche entratura in Vaticano? «Indubbiamente l'omofobia esiste anche nel Paese reale - spiega Costanza - solo che di fronte alla conoscenza diretta del fenomeno e di fronte al riconoscimento della nostra normalità ogni pregiudizio sembra sparire». Morena e Costanza hanno avuto Alice due anni fa. «Siamo andate in Belgio e abbiamo fatto la fecondazione assistita. Anzi, è la mia compagna che l'ha fatta, è lei la mamma biologica».
Uno scherzetto che, grazie alla legge 40, è costato loro varie decine di migliaia di euro. «Il fatto è che noi volevamo davvero tanto Alice». Almeno su questo dovrebbero essere tutti d'accordo: le peripezie che deve affrontare una coppia omogenitoriale per avere un figlio sono così faticose e lunghe che nessuno potrà mai mettere in dubbio la loro voglia di essere genitori.
Eppure, anche loro, che oggi vivono un vita serena e del tutto integrata - una vita normale come più volte ripete Costanza - hanno dovuto fare i conti i pregiudizi. Soprattutto con i propri pregiudizi: «Quando ho scoperto di essere lesbica - racconta ancora Costanza - ho escluso qualsiasi possibilità di divenire mamma. Non è stata una cosa pensata, è stato un pensiero automatico».
Poi è arrivata Morena che insieme all'amore ha portato un insopprimibile desiderio di maternità. «Mi ha messo di fronte ad una questione che io non mi ero mai posta veramente. Con il passare del tempo sono stata trascinata dalla sua dolce determinazione ed ho capito che anch'io volevo essere mamma».
Poi Morena è rimasta incinta e Costanza l'ha "accompagnata" per nove mesi. Visite dal ginecologo, ecografie e infine il parto. Certo Alice e Morena, soprattutto i primi mesi hanno creato il loro piccolo e inviolabile mondo. Quell'osmosi fisica, quasi ferina, che si crea tra madre e neonato. «Lei l'ha tenuta in grembo per nove mesi, l'ha allattata, è normale che sia così. Ma io ho atteso con serenità e oggi, a due anni di distanza, mi sento madre allo stesso livello». Una madre allo stesso livello, certo, ma non per la legge. Lei, Costanza, per lo Stato italiano non ha alcun diritto e alcun legame nei confronti di sua figlia.
Che provasse a spiegarlo alla bambina questo Stato, provasse a dirle che Costanza non è sua madre. Altro che difesa del diritto del bambino.
Ed è per rivendicare questo diritto che ieri, l'associazione Arcobaleno si è ritrovata a Roma in un convegno dal titolo piuttosto esplicito: "I figli fantasma delle coppie fantasma". «E' noto, i fantasmi non si stancano mai - dice la presidentessa, Giuseppina La Delfa - Girano e rigirano, insonni, in cerca di pace e serenità. Così facciamo noi e lo faremo finché saremo accolti nella comunità dei vivi, degli aventi diritti». E il convegno ha rappresentato un'occasione per tirare le somme di tre anni di attività. Del resto i bambini con almeno un genitore gay sono circa 100mila. Un numero che non si può ignorare e la cui composizione è molto varia.
Chiara Lalli, bioeticista dell'Università romana de La Sapienza, sta preparando un volume arricchito da storie di vita vissute di genitori gay: «La cosa che balza agli occhi è la "normalità" di queste famiglie. Ho parlato in modo diretto con i bambini e nessuno di loro vive difficoltà o disagi riconducibile al genere dei propri genitori. Anche il contesto sociale è sereno: la scuola riesce a integrarli senza alcuno sforzo. Una conferma che il dato fondamentale della genitorialità è l'affetto, è l'amore».
Nulla in meno dunque rispetto ad una coppia di genitori eterosessuali. Anzi, forse qualcosa in più. L'unico problema, dunque, è dato dalla legge: «Se il genitore biologico dovesse venir meno, il bambino sarebbe orfano. Non c'è nessuna legge che tuteli il minore da questa gravissima e dolorosissima ingiustizia».
Ma c'è chi si ostina a utilizzare la "tutela del bambino" come un arma da scagliare contro la possibilità che le coppie gay possano adottarne: crescita squilibrata e mancanza delle figura di genere, continuano a ripetere i detrattori. Di certo, però, ci sono solo gli studi dei più importanti istituti di ricerca. Tra questi, quello dell'American Psychological Association: «Sotto condizioni socio-economiche simili, i bambini allevati da coppie dello stesso sesso sono paragonabili a quelli allevati da coppie di sesso opposto in termini di salute mentale e fisica». Del resto, generazioni intere di italiani sono cresciute avendo come unico riferimento di genere le donne: mamme, nonne, zie e via dicendo.
C'erano anche Costanza e Morena al convegno di ieri: «Nostra figlia - ammette sorridendo Costanza - è etero, già si capisce. Vabbè, la accetteremo comunque per quel che è».

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Mosca, gay manifestano contro omofobia; 36 fermi.

(Apcom) E' di 36 persone fermate il bilancio dello scarno Gay Pride moscovita con cui meno di 100 omosessuali russi hanno sfidato il divieto del sindaco della capitale russa Iury Luzhkov, che per il terzo anno consecutivo aveva proibito la manifestazione.

Gli omosessuali russi hanno manifestato oggi nelle strade di Mosca per denunciare l'omofobia persistente in Russia, nonostante il divieto da parte delle autorità e la pioggia di ingiurie varie da parte di un gruppo di altri manifestanti.

"Pederasti, il vostro posto è all'inferno" hanno urlato alcuni militanti di estrema destra lanciando uova, insieme ad alcune anziane ortodosse con icone alla mano, contro un gruppo di omosessuali radunati di fronte al comune. La polizia è intervenuta sul luogo dove è anche stato picchiato un giovane.

Tredici le persone arrestate, ma nessuna apparterrebbe al gruppo degli omosessuali, secondo Nikolai Alexeiev, responsabile del movimento Gay Russia e organizzatore della manifestazione gay che ha anche ricevuto la "solidarietà" del sindaco di Parigi, Bertrand Delanoe.

Gli omosessuali hanno chiesto "maggiori diritti per i gay e le lesbiche" in Russia, dove l'omosessualità era penalmente perseguita fino al 1993. I manifestanti hanno preteso "le dimissioni di Iuri Loujkov, il sindaco di Mosca, il quale ha parlato della marcia come di "un'opera di Satana" e di "un'arma di distruzione di massa" da parte dell'Occidente contro la Russia.

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Discriminazioni. Parla zulu! E poi roghi e pestaggi».

(Marco Boccitto - Il Manifesto) Thomas è gay. Nell'avanzato Sudafrica sperava di trovare riparo anche dagli insulti e dalle violenze quotidiane a cui era abituato, ma non conosceva ancora l'orgoglio machista degli zulu.
Nel campo improvvisato all'interno della stazione di polizia di Cleveland, una ragnatela malferma di teli di plastica che occupa per intero il cortile su cui si affaccia il dormitorio degli agenti, si respira un'atmosfera tutto sommato serena.
Sarà per il tiepido sole invernale che scalda le ossa dopo le piogge e il freddo intenso dei giorni scorsi, sarà per l'arrivo di nuovi operatori della Croce rossa e di altri riservisti della polizia con le loro pettorine gialle, che cercano di darsi da fare come possono. O sarà semplicemente che il peggio è passato. Almeno così sembra alle 1700 persone che hanno trovato rifugio qui. Tra loro ci sono 70 donne incinte e 160 bambini. E stupisce vedere come i piccoli, solitamente anarchici e indipendenti, se ne restano appiccicati alle gonne delle mamme. Come sempre accade nelle tragedie, i loro disegni raccontano i fatti più e meglio di qualsiasi reportage. Ce n'è uno che dopo aver disegnato quello che ha visto nei giorni caldi delle violenze prova a raffigurare quello che vede adesso: una fila di panni stesi, perché nonostante l'area sia sovraffollata, si è riusciti comunque a organizzare anche uno spazio lavanderia.

Una fila lunga e ordinata si snoda verso i tavolini dove si procede a registrare gli sfollati, quasi tutti privi di documenti. Vengono prese le generalità e le impronte digitali, viene assegnato un numero. Al polso di quelli che decidono di non far rientro nel loro paese viene applicato un braccialetto azzurro, tipo quelli dei villaggi-vacanza, con la scritta «Cleveland». Ne esibisce uno anche Thomas, 19 anni, da Bulawayo, seconda città dello Zimbabwe. «Ho deciso di venire qui circa un anno fa - racconta - dopo aver perso entrambi i genitori. I miei fratelli, che hanno un padre diverso dal mio, mi hanno buttato fuori di casa dicendomi di tornare solo se trovavo i soldi per comprare una lapide da mettere sulla tomba di nostra madre». Thomas è gay. Nell'avanzato Sudafrica sperava di trovare riparo anche dagli insulti e dalle violenze quotidiane a cui era abituato, ma non conosceva ancora l'orgoglio machista degli zulu. «Sono entrati nel negozio di parrucchiere in cui lavoravo come garzone armati di machete, hanno ucciso il mio boss e hanno appicato il fuoco a tutto gridando frasi oscene contro gli stranieri e gli omosessuali. Sono vivo per un pelo». Non tornerà a casa, per ora, perché nonostante tutto spera ancora di rifarsi una vita da queste parti.

In giro non ci sono scene di disperazione ma solo tanti occhi rossi e una grande, dolente compostezza. In realtà motivi per agitarsi ce ne sarebbero, eccome. «Ci hanno appena detto che il campo sarà smantellato entro un paio di giorni - dice Felix, anche lui zimbabwano però di Harare, la capitale -, ma nessuno sa dirci dove ci porteranno. Sappiamo solo che il posto prescelto dista una cinquantina di miglia». Nel paese da sei mesi, aveva appena trovato impiego come supplente di geografia e matematica in una scuola secondaria. «Ora rischio seriamente di perdere il posto, ma non ho scelta, non posso tornare a casa così, senza nulla». Poco più in là Frankie, professione muratore, 26 anni, tiene una bambina di sei mesi in braccio mentre sua moglie è andata in cerca di cibo. Punta il dito contro gli zulu, mentre i suoi amici annuiscono con l'espressione grave: «Sono tornati a ballare e a cantare nelle strade, con le lance e i costumi tradizionali, come ai tempi dell'apartheid... Stavolta però il nemico eravamo noi. Qui ci sentiamo abbastanza sicuri, ma il problema è che anche i poliziotti sono zulu e anche molti operatori umanitari, così restiamo un po' sospettosi».

Gli zimbabwani che stanno qui sono quasi tutti di etnia ndebele, ovvero parlano quasi la stessa lingua degli zulu. Ebbene è stato quel «quasi» a essergli fatale, una sfumatura di troppo nell'accento... Danny, un elettricista immigrato da ben 13 anni, finisce il racconto: «Gli assalitori chiedevano prima di dire qualcosa in zulu, poi iniziavano i pestaggi e i roghi».

Due donne che sembrano uscite dal nulla trasportano un pentolone di porridge. Ma nessuno si muove, perché è riservato ai bambini. I grandi ricevono qualche fetta di pane, fagioli in scatola e un po' di tè. Poco dopo riappare la madre della bimba con una scodella. Si chiama Marion e mostra le ferite che si è procurata sul palmo delle mani nel tentativo di ripararsi dalle bastonate. Anche lei è d'accordo nel restare: «Vedrai - dice - anche quelli che sono partiti torneranno, tempo due o tre settimane e saranno tutti di nuovo qui. Che la situazioni migliori o meno, non c'è proprio nulla che li trattenga a casa».

Ma se la situazione non migliora, nessuno sembra disposto a tornare alle proprie attività. Troppo fresco è il ricordo del modo in cui questa gente è stata cacciata dalle proprie case e dai propri negozi, che poi sono semplici chioschetti in legno e lamiera messi su alla bell'e meglio, per ipotizzare un ritorno alla normalità. Un cartello annuncia che alle 5 del mattino partono i bus per chi intende tornare in Zimbabwe. In quanti sono partiti? Risposta: nessuno, perché nessuno li ha visti quei bus. Tra 15 e 30 mila mozambicani hanno girato i tacchi e sono tornati al di là del fiume Limpopo. Ma per chi arriva dallo Zimbabwe è diverso. A casa hanno lasciato una quantità di problemi economici e politici, disoccupazione e fame, che finché qualcuno li protegge preferiscono restare. La cosa che colpisce è che tutti parlano sottovoce, come chi ha deciso di rompere un lungo silenzio. Un silenzio preceduto dalle grida di terrore della notte in cui ha perso i suoi beni, la casa, la dignità e qualche conoscente finito bruciato o con la testa spaccata. Gente che si è costruita onestamente quel poco che aveva, attraverso anni di duri sacrifici, e con una fiammata improvvisa ha perso tutto. C'è chi è qui da una settimana, chi da due. L'ondata xenofoba ha raggiunto Cleveland, appena dieci minuti di macchina dal centro città, solo in un un secondo tempo.

Un po' in disparte se ne sta un gruppo di congolesi. Sfogliano riviste sportive e ascoltano frizzante musica soukous da un piccolo registratore a cassette, quasi come se niente fosse. «I congolesi sono così - dice un poliziotto indicandoli -. Anche quando le circostanze sono drammatiche, la prima cosa che fanno è mettere su una discoteca». Patrick è scappato dalla regione del Nord Kivu in fiamme, è stato un po' a Kinshasa e poi ha puntato tutto sul Sudafrica. «Onestamente pensavo di essermi lasciato il peggio alle spalle, invece eccomi qui». Anche Emmanuel viene dalla Repubblica democratica del Congo, è calmo ma per niente rassegnato: «Finché qualcuno si prende la briga di proteggere le nostre vite noi restiamo. Se poi il governo riuscirà a sensibilizzare la gente che ci vuole cacciare via con una seria campagna contro la xenofobia - aggiunge - il problema verrà sicuramente risolto. Ci vorrà del tempo, ma noi siamo fiduciosi». Quando si dice l'afro-ottimismo.
Anche negli spot in onda alla tv, gli sponsor dei prossimi mondiali di calcio continuano a investire sul 2010, esaltando spassionatamente lo «spirito africano» dell'evento. Per fortuna non ci sono tv, nei campi.

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