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sabato 31 maggio 2008

Buon compleanno, dandy!

Il dandismo compie duecento anni e li celebra con gli stessi fasti degli esordi, nel museo dedicato al Christian Dior a Grenville, luogo di nascita del couturier francese.
Dandysmes 1808-2008, de Barbey d’Aurevilly à Christian Dior in cartellone fino al prossimo 21 settembre, infatti, è una divertente mostra su quello che è stato non solo uno stile di moda ma un vero e proprio modo di guardare il mondo. Quest’anno corre infatti il bicentenario della nascita di Jules Barbey d’Aurevilly lo scrittore che per prime coniò il termine dandismo nell’omonimo testo « Du dandysme et de Georges Brummel ». Da lì fu come un fiammifero e prese fuoco un’intera epoca. Oscar Wilde, Honoré de Balzac, Charles Baudelaire ne tennero alta la fiamma consegnandola alle generazioni future da Sacha Guitry a Jean Cocteau (nella foto), Alexis de Redé per arrivare alla rockstar David Bowie. Dandy non era solo il tipo di tessuto, la scarpa stretta, il pantalone fino, il baffo curato ma tutti questi particolari insieme e un certo modo di porsi nel mondo, ben illustrato nei tre piani dell’esposizione. Scorrono così le vetrine con i volumi d’epoca sull’argomento e gli accessori e gli abiti appartenuti a chi fu dandy nell’anima e per professione.
Curiosa poi la speciale retrospettiva inclusa nella mostra e dedicata ai profumi, vera essenza dell’epoca. Dall’acqua di colonia di Napoleone a “Vol de nuit” che Guerlain produsse come omaggio al padre de Il piccolo Principe Antoine de Saint-Exupéry. E ancora dal Blenheim Bouquet di Penhaligon’s fragranza usata da Winston Churchill fino all’Eau Sauvage di Christian Dior. Perchè in fondo non solo il dandismo non è morto ma è vivo e vegeto in un’alta moda che, in tutte le sue forme, sfida continuamente il mondo con elegante impertinenza.

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Ma perchè la sinistra dovrebbe vincere?

(Giorgio Ruffolo - La Repubblica) Più ci penso più mi convinco che la ormai evidente crisi della sinistra (parlo soprattutto di quella europea) è dovuta, molto più che a gravi errori politici, pure evidenti, a fattori culturali e morali.
In una intervista ripubblicata da Lettera Internazionale, la bella rivista diretta da Federico Coen e Biancamaria Bruno, Cornelius Castoriadis ricordava che i filosofi politici di oggi «ignorano alla grande l’intima solidarietà tra un regime sociale e il tipo antropologico necessario per farlo funzionare».
É un fatto che nel nostro tempo, diciamo a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, è profondamente mutato non soltanto il regime sociale (la struttura della economia e delle classi sociali) ma anche il «tipo antropologico» rappresentativo della società. Della prima mutazione i partiti della sinistra (parlo dei grandi partiti «riformisti») si sono, anche se a stento, accorti e hanno tentato di adeguarsi, prevalentemente in modo passivo, e cioè subendo l’iniziativa di un capitalismo vittorioso. Non hanno invece neppure percepito la seconda, il profondo mutamento culturale che la accompagna e che determina i cambiamenti dell’umore politico e del comportamento elettorale.
Parlo di cambiamenti che si rivelano più con manifestazioni apolitiche e apparentemente irrilevanti, ma significative del modo di sentire e di pensare; dei valori esistenziali; degli "attrattori" del comportamento: tutte "spie" di mutamenti antropologici.
Nell’ultimo mezzo secolo, certo, la natura umana profonda, quella che contraddistingue le caratteristiche strutturali costituenti della specie, è cambiata di poco. Essa cambia sì, ma assai lentamente nello spazio dei millenni, anzi dei milioni di anni. Le caratteristiche culturali, che riguardano i comportamenti estrinseci, cambiano invece radicalmente e talvolta rapidamente. Chi potrebbe dire che l’Uomo medievale o l’Uomo del Rinascimento sono vicini al nostro modo di considerare la vita? (con sorpresa constatiamo, talvolta, che ci è molto più vicina la cultura degli antichi romani! il che prova che la nostra non è una evoluzione lineare).
Ora: un cambiamento antropologico radicale è intervenuto tra la società occidentale dell’Ottocento e della prima metà del Novecento e quella attuale. Quella accoppiava un forte materialismo progressista e scientifico con una altrettanto perentoria esibizione di valori etici trascendenti (Dio, Patria, Famiglia); un accoppiamento che ne costituiva insieme la contraddizione e la forza. Questa ha abbandonato la fede nelle magnifiche sorti e progressive ripiegando dal materialismo progressista allo psicologismo scettico; e al tempo stesso ha annegato i valori trascendenti, cui tributa una deferenza sempre più formale e superstiziosa, in una esplosione di edonismo e di egoismo davvero trascendentale. Il che la rende, magari, più coerente, ma intrinsecamente più vulnerabile.
La forza attrattiva della sinistra stava nella sua decisa denuncia delle contraddizioni della società borghese; della sua ipocrisia e della sua ingiustizia: dell’impossibilità di coniugare i suoi valori trascendenti esibiti, con la pratica della sopraffazione e dello sfruttamento. La sinistra di oggi si trova di fronte a classi dirigenti che, grazie al formidabile progresso tecnologico, non hanno più bisogno sistematico di sfruttamento del lavoro (sebbene questo sia tutt’altro che scomparso) essendo in grado di produrre masse enormi di beni di consumo. Viene meno dunque, almeno in parte, la sua missione di denuncia dello sfruttamento del lavoro. Si ingigantisce invece lo sfruttamento della natura, praticato in cambio di utilità sempre più frivole e al costo di distruzione di risorse irreversibili. D’altra parte, le nuove classi dirigenti rinunciano a presentarsi come portatrici di valori trascendenti per identificarsi con quelli decisamente immanenti dell’edonismo materialistico. Sul terreno economico, la virtù ascetica del risparmio è sostituita dalla incentivazione pubblicitaria dell’incontinenza consumistica; e l’ammirazione per i grandi imprenditori costruttori per quella dei grandi maghi speculatori. Di fronte a questa vera e propria conversione a U del vangelo capitalistico, la sinistra, da una parte si trincera combattendo un capitalismo che non c’è più; dall’altra, manca di percepire le nuove contraddizioni del nuovo capitalismo: che sono soprattutto ecologiche e morali.
Ecologiche: l’insostenibilità di una economia basata sul consumo del capitale naturale: una distruzione chiamata crescita.
Morali: l’orientamento della potenza creatrice della tecnica verso le finalità frivole del consumo, anziché verso la realizzazione di una società più giusta, di bisogni collettivi più urgenti, di scopi culturali realmente trascendenti.
La sinistra, da una parte, quella "radicale", recita un vecchio copione inattendibile. Dall’altra, quella "riformista", insegue una rispettabilità politica basata sull’imitazione di un modo di produzione irresponsabile e di un modo di consumo immorale. Perché, in tali condizioni, dovrebbe essere in grado di contrastare efficacemente i richiami edonistici della destra e di acquistare consensi senza essere in grado di esprimere una alternativa economica ed etica alla deriva ecologica e morale, Dio solo lo sa.

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Bologna Pride: Al Festival DiverGenti il documentario su Lucy, una trans a Dachau

(Vincenzo Brana' - Il Domani di Bologna) Un viso come tanti, segnato dalle inevitabili rughe dell’età ma illuminato da un sorriso che va oltre la piega delle labbra e coinvolge gli occhi vivi con cui guarda dritta in camera. Lucy è così. O perlomeno così appare in Essere Lucy, il documentario che la regista Gabriella Romano ha messo in cantiere e di cui stasera (il 29 maggio alle 21 al cinema Lumière) verrà offerto un promo nella serata inaugurale di DiverGenti, il festival di cinema trans curato dal Mit di Bologna. Perché Lucy, l’ottantenne arzilla signora protagonista del lavoro di Romano, nel 1924, quando venne alla luce, era un maschio. Poi negli anni Settanta, a Londra, riuscì a “correggere” quel corpo che da sempre sentiva estraneo ed è diventata a tutti gli effetti una donna.

Nella storia di Lucy la transessualità è solo un elemento di contorno: perché quello che Gabriella Romano sta tentando di portare sullo schermo è una storia inedita, che ha che fare con quel ingarbugliato susseguirsi di date che ne costituisce la spina dorsale. Nell’agosto del 1943 Lucy fu arruolato, e a settembre scoppiò il conflitto mondiale, per il quale entrò nell’esercito tedesco. Lucy, però, era un omosessuale, e quando il suo “segreto” esplose - nel ‘43 fu trovato in una camera dell’hotel Bologna mentre faceva sesso con un soldato tedesco - fu perseguitato e rinchiuso nel campo di concentramento di Dachau.

E se in Italia, dopo più di 60 anni, questi sono i tempi in cui si battono le prime sentenze successive alla tardiva apertura dell’Armadio della Vergogna, le storie come quelle di Lucy nelle aule della giustizia probabilmente non arriveranno mai: “Nessun omosessuale – spiega Gabriella Romano, autrice tra l’altro di diversi documentari sull’omosessualità in quegli anni “bui” - era disposto ad ammettere, chiusa la guerra, la vera causa della propria deportazione”. Lucy invece lo fa, anche se in realtà il triangolo rosa, il simbolo con cui i nazisti marchiavano gli omosessuali deportati, non fu mai appuntato alla sua giacca. C’era quello rosso al suo posto, il segno che gli aguzzini riservavano ai prigionieri politici e ai disertori. Lucy, insomma, doveva pagare perchè “ribelle” alla divisa, preda in costante fuga da quell’atroce trappola che le era stata stretta addosso.

L’omosessualità in quegli anni, riferisce Romano, “era una pratica fatta di incontri occasionali, che difficilmente arrivava a progettare una vita affettiva”. “Nel racconto di Lucy - prosegue la regista - Bologna ai tempi del fascismo aveva i suoi luoghi deputati agli incontri omosessuali: l’Arena del Sole, ad esempio, alcuni cinema e il bar Centrale che si trovava in via Indipendenza. Tutti lo sapevano, ovviamente, ma non se ne parlava. L’intolleranza - sottolinea Romano - arrivava, proprio come capita oggi, quando si varcava la soglia della visibilità, infrangendo la regola del si fa ma non si dice”.

Lucy la sua storia l’ha trattenuta per sessanta anni nel cuore: dopo i fragori della guerra, benché miracolosamente salva dopo quella inenarrabile prigionia, la sua famiglia la ripudiò. “Ma Lucy è una donna combattiva” dice Gabriella Romano senza esitazione. E così, fuggita alle torture della deportazione seppe ricostruirsi una vita, e perfino conquistarsi quelle sembianze di donna che per tanto tempo erano state la sua meta. Oggi Lucy a Bologna ha la sua vita: le piace ballare e frequenta ancora gli amici della giovinezza.

Per l’inferno di cui è stata prigioniera, però, nessuno l’ha mai risarcita, e il suo sostegno, ancora oggi, è ridotto a una modesta e normalissima pensione, frutto del suo lavoro di tappezziere. Così, con gli abiti umili di una donna come tante, Lucy stasera salirà sul palco del Lumière, per offrire al pubblico la possibilità di ripercorrere quel tratto di storia che già si dimentica, prima ancora di esser stato appresa.

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GayLib esce dai gaypride e se ne inventa uno personale.

Il Gay Pride di GayLib? Un incontro presso la tomba di Pim Fortuyn, a Provesano.*
“Il 21 giugno ricorderemo la memoria di Pim Fortuyn, il leader omosessuale della destra olandese barbaramente assassinato nel 2002 perché latore di idee di giustizia e di libertà laddove, nella sua Olanda, le fallimentari politiche di integrazione di una popolazione islamica intransigente sono sfociate e sfociano tutt’oggi in aggressioni e violenze nei confronti dei gay”. Lo afferma Enrico Oliari, presidente di GayLib (gay di centro-destra), il quale sostiene che “Pim era un omosessuale dichiarato, dalla cultura raffinata, orgogliosamente gay ed orgogliosamente di destra: un esempio per me e per tutti noi. Sabato 21 alle ore 11.00 ci incontreremo presso la sua tomba a Provesano (PN), in quella terra che Pim amava e che voleva come sua seconda dimora”.

“I Gay Pride italiani – ha continuato il presidente di GayLib – sono manifestazioni di sinistra che discriminano chi di sinistra non è, tant’è che anche quest’anno a Bologna sono state escluse sistematicamente e volutamente le nostre iniziative culturali. D’altro canto ci dicono che il gay pride è una festa, ma davvero non vedo cosa ci sia da festeggiare in un’Italia che, a differenza dell’Olanda di Pim, non riconosce i diritti delle le coppie omoaffettive”.

*Comunicato distribuito da GayLib.
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Ndr. Il pellegrinaggio al "milite gay" è quanto di più irresistibile potevano inventarsi. Praticamente è nata una nuova "compagnia di giro" e che ha scelto il varietà ma che presto, stiamone certo sceglierà un repertorio più vicino alla tragicommedia. E' grottesco che dopo tutti questi anni Si siano accorti che i gaypride sono nella pratica delle manifestazioni della sinistra decidendo quest'anno di non parteciparvi. E gli altri anni cos'era? Una processione della Madonna delle sette ferite? Eppure con striscioni e gagliardetti vi hanno partecipato, facendo inoltre di tutto per mettersi bene in mostra... A proposito, vorremmo sapere se segue "pizzata"... e se il 28 giugno parteciperete al Bolognapride, ovviamente non in modo ufficiale ma in "veste" del tutto personale... E le cattive frequentazioni come le cattive abitudini sono difficili da lasciare. Giorni fa Oliari ha chiesto le dimissioni a non ben precisate persone del movimento gay della sinistra, non ha mai pensato il nostro letterato autodidatta che le dovrebbe dare anche lui e lasciare quella sua proprietà che si chiama GayLib a qualcun'altro e forse politicamente (ed anche culturalmente, diciamolo...) più preparato di lui... e tra l'altro non ci vuole molto.(Aspis)

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