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venerdì 7 dicembre 2007

Omosessualità. Non solo Iran: La dura vita dei gay mediorientali.

L'impiccagione, ieri in Iran, di un ventenne condannato a morte perchè gay è riaperto la discussione sui diritti (inesistenti) degli omosessuali nel paese. Ma anche nel resto della regione la situazione non è rosea.

(Irene Panozzo - Lettera 22 e Il Manifesto) L’Iran non è l’unico paese mediorientale a usare la mano pesante nei confronti degli omosessuali. Anche gli altri paesi della regione non vanno di solito molto per il sottile quando si tratta di punire i gay. E non si tratta solo di una questione di religione, visto che, assieme a Israele, l’unica nazione in cui l’omosessualità non è un reato è la Giordania, governata dalla casa reale hashemita, diretta discendente del Profeta.
Per il resto, si va da pene di un anno di reclusione previste in Libano e in Siria, ai dieci anni di prigione previsti in Palestina e Bahrein, fino ai circa cinque anni che possono essere dati in Egitto, dove l’omosessualità non è esplicitamente fuori legge, ma è considerata un tabù sociale ed è punita facendo ricorso a varie norme, in particolare a quelle solitamente usate per i reati legati alla prostituzione. La rassegna finisce con la pena di morte con cui possono essere puniti gli omosessuali di Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Yemen. In realtà però, con la lampante eccezione della repubblica islamica, difficilmente le pene vengono portate a termine, anche se ciò non significa certo che la condizione degli omosessuali in questi paesi sia migliore di quanto appaia considerando solo la legislazione in vigore. I fatti di ieri confermano un dato di fatto noto già da tempo. Cioè che a detenere il record negativo per quel che riguarda la persecuzione nei confronti degli omosessuali sia proprio il paese degli ayatollah, dove dalla rivoluzione islamica del 1979 a oggi pare che siano state eseguite le condanne a morte di migliaia di uomini gay (o presunti tali).
Negli Emirati Arabi Uniti, invece, dove la pena di morte per omosessualità, seppur in vigore, non viene comminata, non si sa bene quale sia stato il destino dei ventisei uomini arrestati a due anni fa perché, secondo le autorità, avevano preso parte a un matrimonio gay in un hotel di Abu Dhabi. Secondo le dichiarazioni rilasciate allora dalla polizia e da funzionari del ministero degli interni, poi in parte smentite, l’intenzione era di fornire ai detenuti una cura ormonale e psicologia forzata per “guarire” la loro identità sessuale. Tutte le richieste di chiarimenti e i richiami alla lettera dei trattati internazionali e all’etica medica fatti da Amnesty International e da altri gruppi per la tutela dei diritti umani, oltre che da alcuni governi occidentali, non hanno sortito effetto.
Per gli omosessuali, quindi, la vita nei paesi mediorientali non è certo facile. Un clima un po’ diverso, relativamente più tollerante, si respira in Libano. Dove nonostante l’articolo 534 del codice penale punisca “le relazioni sessuali contrarie alle leggi della natura” esiste una comunità glbt piuttosto attiva. Non è quindi un caso se la prima e unica rivista gay del Medio Oriente sia nata proprio nel paese del cedri. Si chiama Barra, ovvero “fuori” in arabo. Un po’ come il coming out inglese, insomma. Un manipolo di coraggiosi giornalisti, membri dell’associazione Helem, l’acronimo arabo che sta per “Protezione libanese per lesbiche, gay, bisessuali e transessuali”, ha deciso nel 2005 di dar vita a un trimestrale nuovo e senza precedenti. Che però, stando a quanto pubblicato sul sito www.helem.net/barra.zn, si è fermato al secondo numero, quello della primavera 2006.
Secondo Helem e i suoi membri, Barra, con articoli in arabo, francese e inglese, avrebbe dovuto avere come obiettivo primario l’abrogazione dell’articolo 534 del codice penale libanese, un passaggio che potrebbe “aiutare a ridurre la persecuzione dello Stato e della società e aprire la strada al raggiungimento dell’uguaglianza per la comunità lesbica, gay, bisessuale e transessuale in Libano”. Barra si presentava così come uno strumento di lotta, per fare advocacy, anche attraverso delle provocazioni, più o meno pesanti. Come il titolo inglese del suo secondo e ultimo numero: “Con chi dormiamo non è affar vostro”.

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