Ha amato molte donne, da Fernanda Pivano, sua prima moglie, a Barbara Radice, bellissima in una foto con lui in bianco e nero di Helmut Newton, appesa sulla parete colorata. Scrittrice e giornalista che, come dice lui, “mi protegge dalla mattina alla sera” e che anche ora si affaccia a controllare che non si stanchi troppo.
Sottsass non ama le autocelebrazioni: “Io non c’entro, hanno chiesto agli amici di scrivere qualcosa su di me, non ne sapevo nulla. Quando i miei collezionisti mi hanno domandato se consigliavo loro di prestare le mie opere, ho risposto no”. Ironico e amaro, dice di sé: “Non credo di aver lasciato alcuna traccia del mio lavoro, forse qualcosa in Aldo Cibic”.
Certo, non sono più i tempi di Adriano Olivetti e della celebre macchina per scrivere Valentine. Sottsass ricorda: “Scriveva solo maiuscole come i telegrammi, era di moplen, come i secchi per lavare per terra, ed è piaciuta solo agli intellettuali americani”.
Sottsass ha sempre coniugato il design con la critica sociale. Dalla libreria-totem Carlton, oggetto culto del periodo di Memphis, il gruppo fondato nell’81 con Arata Isozaki, Hans Hollein, Michele De Lucchi e Andrea Branzi, ai mobili Beverly e Casablanca, i suoi oggetti sono icone della modernità.
“Oggi le riviste di architettura sono soprattutto cataloghi di pubblicità” dice “pagine di sedie e divani, perché quello si vende. Quello è l’arredamento. Invece una stanza non è solo un divano per ricevere gli amici, è un luogo dove si vive a lungo, dove si consumano arrivi e abbandoni. Un luogo che bisogna conoscere”.
Architetto, laureato al Politecnico di Torino, Sottsass è figlio d’arte: “Anche mio padre era un architetto, ricostruiva i paesetti nelle Dolomiti, distrutti dalla Prima guerra mondiale. Per me l’architettura era già allora il disegno di uno spazio da vivere, non da guardare”. Ad alcuni colleghi riconosce la capacità di progettare attorno all’uomo. “Come Marco Zanuso, Vico Magistretti o Aldo Rossi, con cui eravamo amici. Cercavano disperatamente di disegnare architettura”.
E ai giorni nostri? “È un mestiere che può fare solo chi è ricco di famiglia”.
I suoi progetti più recenti non tradiscono questa filosofia: così la costruzione di un luogo di svago a Nanchino, in Cina, diventa un nuovo intervento in chiave umanistica. “L’ho fatto diventare un villaggio, un luogo dove la gente abbia del verde dove camminare e ritrovarsi in una dimensione consona”.
Poi aggiunge il suo consueto “forse mi sbaglio”, perché nelle sue parole non c’è mai un’affermazione assoluta, come gli indiani che per dire sì scuotono dolcemente la testa come se non fossero d’accordo. Dunque, forse si sbaglia, “ma l’architettura deve essere misurata sul corpo umano”. Per questo non gli piacciono i grattacieli che, dice “sono edilizia, non architettura. E questa è una distinzione cui tengo molto. Sono tutti uguali, in qualunque parte del mondo. Per me l’architetto è chi tiene conto dei percorsi, dell’orientamento, dell’uso delle stanze. È come nei grandi templi, da quelli indiani a quelli di Paestum, dove era massima questa cura tra l’uso dell’interno e dell’esterno. Il tempio è la casa di Dio, deve comunicare intensità”.
A quale dio si riferisce? “Esiste l’ignoto, la sacralità. L’ignoto è infinitamente più sofisticato di Dio”. L’ignoto che può diventare bellezza, perché, come Sottsass ha detto più volte, se qualcosa ci salverà sarà proprio la bellezza. “La frase, tra l’altro molto bella, non è mia. È tratta dall’Idiota di Fëdor Dostoevskij e ai tempi del principe Mishkin la bellezza era considerata un’apparizione rara, rarissima. Quasi più divina che umana. Oggi penso piuttosto che sia una convenzione tra gruppi di persone, tribù o nazioni che hanno avuto nel tempo storie culturali comuni. Sono loro che nei tempi lunghi hanno deciso che cosa è la bellezza”.
Ha viaggiato ovunque e ha vissuto da sempre a Milano. “Non c’è niente di poetico in questa città, specialmente nelle grandi periferie, oggi abbandonate dai politici e luogo di rifugio per stuoli di disgraziati e migranti. Forse la parte più poetica di questa città sono gli zingari, con la loro capacità di affrontare difficoltà per noi impensabili”.
E pensa un po’ a se stesso, che mentalmente nomade lo è stato sempre. Anche se da 10 anni sta in questa “vecchia casa, un po’ ripitturata”, vicino a via Dante, dai colori pastello, i molti libri, i suoi vasi antropomorfi, le divinità indù decorate da sottili collane.
“Dallo studio di Barbara si vede una magnolia incredibile nel giardino del vicino. Ogni notte la luna illumina questa nostra magnolia”, si ferma e le mani sottili scivolano sulle ruote della sedia a rotelle: “Non ho paura di nulla, neanche della morte. Piuttosto ho nostalgia, melanconia. Altri tipi di tristezza. Ma lo sa che la vita è più complicata di come ne abbiamo parlato oggi?”
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