(Terry Marocco - Panorama) Nelle grandi città, sostiene Stefano Boeri, architetto, urbanista e direttore della rivista Abitare, crescono “anticittà parallele a quelle ufficiali. Crescono invisibili fino al momento in cui sprigionano forme radicali di antagonismo e rivolta”.
Saranno le banlieue italiane?
No, da noi le periferie sono una condizione mobile. Arcipelaghi e non ultima cintura prima della campagna, come a Parigi. Si alternano a quartieri popolari, a villette del ceto medio, oppure sono dentro i centri storici che, in certe ore del giorno, diventano a loro volta periferia. Così accade a Milano, nella zona intorno al Duomo che, dopo l’happy hour si svuota e, con gli uffici chiusi, si popola di chi non ha spazio per abitare.
Periferie dentro i centri storici?
Pensi ai Quartieri Spagnoli di Napoli, dove il degrado fa posto all’immigrazione, collocandosi al centro della città. Ma ci sono immigrati, come i cinesi, che tendono a ricreare veri quartieri monoculturali. Quello è un fenomeno antico e unico. La Chinatown di Milano è un quartiere che con i suoi cortili interni, i piccoli magazzini, si è prestato perfettamente all’isolamento. Negli altri casi le nostre città sono come caleidoscopi: realtà diverse che si mischiano, una divisione più socioeconomica che etnica. In Italia non ci sono i ghetti, intesi in senso tradizionale.
E via Anelli a Padova, con il suo muro?
Credo che neanche via Anelli possa essere definito un ghetto etnico. È una concentrazione di marginalità.
Sono città nelle città?
Non sempre. La grande crescita della comunità romena, che non ha i legami di quella cinese, essendo una società di individui, è l’esempio perfetto di una dispersione nella società.
Con il melting pot si costruisce in modo diverso?
Sì, dopo anni di abbandono dell’edilizia sociale oggi si sta ricominciando. Si costruisce prevedendo edifici più piccoli. Pensando a chi verrà a viverci, con spazi variabili per famiglie più numerose. Sphere: Related Content
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