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giovedì 25 ottobre 2007

Com’è cambiata la televisione: dalla qualità al sensazionalismo.

Intervista a Ugo Gregoretti, uno di coloro che inventarono l’inchiesta filmata italiana. La grande libertà di espressione non è stata sfruttata perché a dominare è l’audience che premia la non qualità.

(Alessandro Montello - L'Espresso) La prima volta che vide la televisione, quella mitica proposta dalla Bbc dagli straordinari mezzi tecnologici, fu nel 1960. Se l’era portato a Londra per intervistarlo dopo aver mandato in onda una sua inchiesta televisiva: La Sicilia del Gattopardo. Eppure erano già passati quasi dieci anni da quando Ugo Gregoretti faceva televisione. E per l’azienda di stato, la Rai. Con lui un gruppo di professionisti, inquadrati in una speciale sezione del telegiornale, incaricati di far conoscere l’Italia di allora attraverso il nuovo straordinario mezzo di comunicazione. Che loro, Umberto Eco, Furio Colombo, Fabiano Fabiani, Gregoretti e altri, per loro stessa ammissione, non conoscevano proprio. La loro massima ispirazione era il cinema: alla tv guardavano solo come a una provvisoria soluzione di ripiego.
A Gregoretti, che poi di televisione, cinema, teatro, regia lirica ne ha fatta tanta, scandendo il tempo dell’evoluzione della nazione con la sua poetica, la prima edizione di Le voci dell’inchiesta, dedicherà un’importante retrospettiva tutta centrata sull’originale produzione documentaristica del giornalista e regista romano che, domenica 4 novembre, sarà anche presente a un dibattito a lui dedicato.
È stato un omaggio dovuto, allora, sentire Ugo Gregoretti, per commentare gli esordi e l’evoluzione dell’inchiesta televisiva e, attraverso questo, arrivare a qualche considerazione sull’Italia di oggi.
Gregoretti, partiamo dall’origine: che cosa volevate scoprire con le inchieste degli anni Cinquanta?
«Andavamo sistematicamente alla scoperta del Paese che volevamo capire di più. Occorre dire che esistevano dei limiti politici oggi impensabili: c’era una vera e propria censura; ce la saremmo sognata una libertà di espressione come quella attuale».
L’azienda Rai come si comportava?
«Controbilanciava questa censura spronandoci a fare bene il nostro lavoro. Eravamo severamente stimolati dall’azienda e dai nostri capi a fare una televisione che, qualitativamente, fosse la migliore possibile. Ma non c’erano modelli: non è come oggi che si può guardare quello che fanno gli altri e migliorare».
Cioè facevate televisione senza averla mai guardata?
«Negli anni Cinquanta eravamo all’oscuro di quanto succedeva all’estero; dovemmo arrangiarci e inventare il linguaggio televisivo dell’inchiesta. Non avevamo maestri, ma piuttosto dei capi responsabili come Vittorio Veltroni, che ci stimolava a far parlare la gente, a individuare i personaggi. Poi però dovevamo fare tutto da soli».
Anche a livello tecnico?
«I nostri tecnici erano dei ventenni come noi, che avevano cominciato facendo esperienza nel cinema come aiuti degli aiuti degli aiuti. Poi furono assunti dalla Rai quando l’azienda organizzò questa filiazione pseudocinematografica. Alla precarietà del cinema preferirono la stabilità economica e così cominciammo a collaborare insieme».
Eravate dei dilettanti allo sbaraglio?
«Nessuno di noi ne sapeva nulla di questi temi e ognuno era entrato in Rai raccomandato dall’una o dall’altra parte. Non è che avevamo un talento o un’inclinazione specifica: imparammo nel giro di pochi anni e inventammo uno stile».
Lei e chi?
«Eco, Colombo, Fabiani, io e qualche altro: il Didr. Ovvero la sezione Documentari inchieste dibattiti e rubriche. Eravamo una sezione autonoma dei Tg. Che quando volevano farci dispetto ci mandavano a fare le notizie dei telegiornali».
Li definisce dei dilettanti: ma la mitica Bbc premiò La Sicilia del Gattopardo...
«Addirittura proiettò a Londra quel mio lavoro. In fondo per merito nostro, che non avevamo mai visto la televisione degli altri, la tv italiana era considerata una delle migliori del mondo».
E oggi?
«Oggi no. La deriva alla quale stiamo assistendo è cominciata con la soppressione del monopolio. Con la democratizzazione del mercato televisivo e con la rincorsa all’ascolto. Gli unici veri creativi oggi sono quelli che producono formaggi e vini: gli inserzionisti televisivi».
La pubblicità?
«Sì. Siccome i programmi più sono scadenti tanto più sono popolari perché abbracciano strati numericamente esorbitanti di pubblico, succede che anche i programmi Rai vengono realizzati con l’obiettivo dell’audience. Che, nonostante tutta la precarietà dei suoi dati è diventata una filosofia morale».
Però di inchieste giornalistiche se ne vedono ancora tante in tv. A chi avete lasciato il testimone?
«A nessuno. Da un certo momento in poi in Rai le responsabilità sono state assunte da persone alle quali la qualità e l’innovazione del linguaggio non interessavano. E tutti i direttori di rete arrivavano dalla carta stampata».
Cioè il testo ha avuto il sopravvento sulle immagini?
«Certo: prima si scrive il testo e poi si va in archivio a cercare delle immagini a corredo del servizio. Il nostro sogno era invece quello di riuscire a parlare solo con le immagini, con le interviste; il cinema, usando il commento come strumento non primario, ma utile e necessario. Facendo in modo che la significanza dell’immagine avesse il primo posto».
Denuncia errori di grammatica del linguaggio televisivo?
«Direi che questa televisione è da seppellire sotto una catasta di righe con la matita blu».
Non salva proprio nulla?
«C’è una grande libertà di espressione. Certe cose che fanno oggi noi ce le potevamo sognare: non si potevano denunciare gli aspetti negativi. Però occorre dire che, con il centrosinistra e con la legge di riforma, oggi la tv è degradata al livello dell’Isola dei famosi».
Il peggio del peggio?
«Oggi l’estetica non è richiesta. Noi eravamo fissati sull’inquadratura, sulla resa cinematrografica. Invece oggi c’è la ricerca assoluta del sensazionale».
Il Paese è cambiato: in meglio o in peggio?
«In meglio perché è più libero. In peggio perché si è incafonito. L’imbarbarimento della nostra società è sotto gli occhi di tutti: speriamo non sia irreversibile».
E la televisione ha seguito questa deriva nazionale?
«Inutile negarlo. Anzi, visto che per la battuta di un ragazzetto ultimamente la mia riconoscibilità si è notevolmente accresciuta, vorrei sintetizzare con un motto. La televisione italiana? Da Gregoretti alla Gregoraci»

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