(Alessandra Cavazzi - Exibart) Si è chiusa anche questa edizione del Gender Bender. Senza gli scandali e il vociare dello scorso anno. Non si può dire che non abbia provato a scuotere la sensibilità puritana anche questa volta, ma forse gli effetti, volutamente o meno, non sono stati gli stessi. Quest’anno Gender Bendersi è guardato alle spalle, rovistando ancor più negli archivi dell’arte con la A maiuscola, nel tentativo di conquistarsi un sicuro posto fra le stelle dei festival culturali. Chapeau.
La serata dedicata al film di Sylvano Bussotti ne è un chiaro esempio. Per il festival, l’eclettico e ancora arzillo regista, coreografo, attore e compositore ha mostrato il suo lungometraggio più famoso, girato negli anni ‘60 in 16 millimetri, dal titolo RARA(film). Per l’occasione ha composto la musica di accompagnamento per violino, coro, batteria, piano, oltre che per una serie di oggetti con i quali era possibile riprodurre al meglio lo “strappo bussottiano”, cioè la mancanza di sincronia con le immagini. Per lo spettatore l’effetto è stato un tuffo nel passato, tra le immagini che sembravano dipinti, con i toni morbidi dell’acquerello, dei visi di attori noti di quegli anni, come Laura Betti e Franca Valeri, alternati, non senza chiara malizia, ai corpi femminei di giovani attori.
Per le arti performative, un crollo inaspettato. La coreografa Ann Livingston Young ha messo in scena in anteprima nazionale la sua opera Snow White. Opera danzata ma soprattutto cantata e urlata, liberamente tratta dalla fiaba dei fratelli Grimm. Sulla scena i protagonisti erano e dovevano essere donne (e inspiegabilmente un uomo, il cui ruolo è stato solo marginale) che hanno interpretato, spesso completamente nude, il ruolo dei personaggi, muovendosi liberamente su un palcoscenico raffazzonato e variando a ogni spettacolo il copione, immancabilmente tagliente e persino offensivo. Resta da capire se Young abbia voluto colpire il pubblico frastornandolo con canti stonati e con cosce e petti di donne in carne per sopperire una mancanza di idee veramente originali.
Il festival si è rifatto sfoderando a intervalli regolari gustose novità. Presentando per la prima volta una rassegna di film e documentari sugli anni dell’avanguardia del 1963-1983, scovati a volte in polverosi archivi museali da Walter Rovere, curatore dell’iniziativa e volto già noto del festival (chi può dimenticare la sua partecipazione alla performance di Katarzyna Kozyra?). La rassegna è stata suddivisa in aree tematiche (Body Art, Politica, Drag Ecstasy for everyone e Skin) nelle quali la ribellione sessuale ha maggiormente fatto scalpore, cioè quando il perturbante corpo nudo in carne e ossa di un uomo e di una donna venivano esposti in una galleria d’arte (Marina Abramovic alla galleria d’arte moderna nel 1977 in Imponderabilia) e quando la sessualità lesbica, gay, etero veniva portata sugli schermi senza malizia, con la naturalezza di chi vuole mostrare un aspetto della vita umana (Barbara Hammer nel suo cortometraggio sull’orgasmo femminile).
Il vero fiore all’occhiello del festival è stata la sezione cinema, che ha riservato anche inattese anteprime nazionali, come Miss Gulag di Maria Yatskova, Avant que j’oublie di Jacques Nolot, Lagerfeld Confidential di Rodolphe Marconi e Seven Easy Pieces di Marina Abramovic. Tutti film documentario, tutte testimonianze di individui che si mettono a nudo, svelando i lati meno noti del Paese in cui vivono e della società della quale si trovano a far parte, magari loro malgrado.Lo svelamento dei tabù del genere sessuale: ecco immancabilmente il minimo comun denominatore di tutte le edizioni. Ancora una volta, il festival ha offerto l’opportunità di rientrare in un’utopia in cui non ci sono differenze e pregiudizi e dove un altro mondo è possibile, come sembra suggerire l’assorto Adolf della locandina del festival, alle prese con le sue patate bollenti.
-
Nessun commento:
Posta un commento