(Giuliano di Tanna - Il Centro) E’ rimasto un’ora e mezza senza accendere una delle Multifilter rosse che fuma a catena. Ma il sacrificio è stato compensato dall’entusiasmo con cui il pubblico - in gran parte composto da studenti - l’ha accolto, ieri mattina, nell’aula del rettorato dell’università D’Annunzio di Chieti. Andrea Camilleri, 82 anni siciliano di Porto Empedocle (Agrigento), era lì per ricevere la laurea honoris causa in Filologia moderna della facoltà di Lettere e filosofia. A far festa all’autore della saga del commissario Montalbano e di altri libri di successo, sono stati - oltre al pubblico - il rettore, Franco Cuccurullo, il preside della facoltà di Lettere e filosofia, Stefano Trinchese, e il docente Giancarlo Quiriconi, che ha introdotto lo scrittore con un’appassionata relazione.
Dopo il conferimento della laurea, Camilleri ha accettato di rispondera alle domande del Centro.
Perché ha scelto il rapporto fra Gramsci e Pirandello come tema della sua lectio magistralis?
«Perché, negli ultimi anni, mi è capitato di lavorare molto su Pirandello. Ho curato un libro di pagine scelte per la Bur e ho scritto l’introduzione all’ultimo Meridiano Mondadori sul Pirandello dialettale. Preparando quest’ultimo lavoro mi sono imbattuto in quel lapsus, molto interessante, di Gramsci. Così ho colto l’occasione».
La lingua dei suoi romanzi è un impasto di italiano e siciliano: perché questa scelta?
«Queste cose non sbucano fuori come i funghi ma dopo una ricerca. Ho capito che questo modo di esprimermi mi consentiva di dire al massimo ciò che volevo dire. Anche Leonardo Sciascia mi diceva: ma chi ti leggerà se scrivi così? E io gli rispondevo: non ho scelta. Alla fine ho avuto ragione io anche se - va detto - le riserve di Leonardo erano più che motivate».
Che rapporto ha con il mondo, Montalbano?
«Montalbano getta uno sguardo sul suo villaggio. Non so se è Tolstoj o Dostoevskij che dice: descrivi bene il tuo villaggio e avrai descritto bene il mondo».
Come definirebbe questo sguardo: disincantato, fatalista, cinico?
«Cinico no, se non alla maniera di Cardarelli che diceva: sono un cinico che ha fede in quel che fa. E’ uno sguardo soprattutto ironico e comprensivo».
Questo è anche il suo sguardo?
«Credo di sì».
Uno scrittore ha un compito ulteriore rispetto a quello di scrivere bene e intrattenere il lettore?
«No. Deve essere semplicemente in pace con la sua coscienza e la sua scrittura».
Che cosa sta leggendo in questi giorni?
«Almeno tre libri che mi hanno interessato. “2666” di Roberto Bolaño; un libretto intitolato “Le ultime ore dei miei occhiali” di Nino Vetri, pubblicato da Sellerio; e il terzo è un capolavoro, “Il presidente” di Simenon. E poi c’è una lettura che durerà anni, attraversando tutte le altre, che sono i tre volumi del “Journal” dei fratelli Goncourt; sono a metà del primo».
Che cosa detesta dell’Italia di oggi?
«L’Italia di oggi la detesto per ciò che è successo domenica (gli scontri degli ultras, ndr). Non mi va che l’Italia sia rappresentata da questi esseri. Sono loro che non appartengono all’Italia».
Che cosa ama, invece, dell’Italia?
«L’infinita capacità di adattamento degli italiani».
Che è anche la sua?
«Naturalmente».
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