Nata a Miami, in Florida, nel 1956, giornalista di cronaca nera prima di diventare analista informatica presso l’ufficio di medicina legale della Virginia, autrice di una ventina di romanzi, Cornwell non è soltanto una delle scrittrici di thriller più affermate a livello internazionale. È anche un personaggio capace di spiegare il mistero del crimine. Come dimostra questa intervista rilasciata a New York.
Patricia Cornwell mi ha dato appuntamento da Esther, la sua agente, a due passi da Times square. È venuta dalla zona di Boston, dove risiede, con il suo elicottero personale. Vestita in rosso e nero, la scrittrice ostenta una sicurezza degna delle grandi ereditiere. Parla del thriller Tolleranza zero (già pubblicato in Italia, ndr), nel quale una donna procuratore, Monique Lamont, incarica il poliziotto Win Garano di indagare su un crimine irrisolto. Ma parla anche di genetica, di serial killer, dei propri timori e delle proprie speranze, persino della famiglia Bush, alla quale pare sia molto vicina.
La protagonista del suo romanzo, Monique Lamont, a volte può essere piuttosto antipatica…
Vede, vi sono molte Monique Lamont al mondo, donne di potere che, purtroppo, prendono il peggio degli uomini.
È forse il genere di donna che teme di diventare?
Ogni anno mi pongo tre obiettivi: diventare una persona migliore, diventare una migliore scrittrice ed essere più in forma, perché sono terrorizzata dall’idea di invecchiare. Mi do molto da fare per rimanere una persona decente, poiché ritengo che in ognuna di noi si annidi una Lamont. Sono affascinata da queste donne di potere, ma il mio maggior timore è diventare egoista come loro. È questa la natura umana, per cui dobbiamo impegnarci tutti per essere più generosi. A questo proposito, nel mio sito internet faccio la promozione di alcuni autori che reputo brava gente. Ci tengo a fare del bene. Sono materialista, ma posso assicurarle che do più soldi alle persone di quanti non ne spenda per una Ferrari.
“Se è vero che esiste un gene di Dio, allora può esistere anche un gene del diavolo” lei scrive in Tolleranza zero. Crede che la propensione a delinquere abbia una base genetica?
Non credo che si possa dar prova di una tale mancanza di umanità se non c’è una predisposizione genetica. Penso anche che siamo tutti potenzialmente capaci di fare cose terribili. Ecco perché bisogna stare molto attenti a non farsi prendere dall’odio.
Ha già incontrato dei serial killer?
Sì, e ne incontrerò altri, ma solo all’interno del carcere. Non bisogna lasciarsi coinvolgere troppo. Per dirla con un’espressione che si usa da noi e che mi piace, “se ceni con il diavolo, usa un cucchiaio con il manico lungo”. Io ne uso uno lunghissimo.
Non è forse più attratta dagli psicopatici che dagli investigatori che indagano su di loro?
Preferisco passare il tempo con coloro che risolvono i crimini piuttosto che con quelli che li commettono. Un mio caro amico, Bill Bass, considerato il maggior antropologo della East Coast, ha creato The Body Farm (La fabbrica dei corpi) a Knoxville. È un luogo incredibile; i corpi sono messi in una situazione che rappresenta il crimine: stato di decomposizione, amputazioni e così via. Tutto per far evolvere la criminologia. Vi sono centinaia di persone in lista d’attesa per donare il proprio corpo. È una buona cosa: in questo modo partecipano al progresso della ricerca, sul campo.
Una volta lei ha detto di alternare scrittura e ricerca: patologia applicata, a Quantico, sede dell’Fbi; scuola di investigazione sugli omicidi a Baltimora. È ancora così?
Per il momento porto avanti due progetti di ricerca in vista dei miei prossimi romanzi: uno, appassionante, che si svolge in Italia, con i carabinieri, per il prossimo Scarpetta, l’altro, a Watertown, nel Massachusetts (dove Win sarà inviato dalla Lamont), presso il dipartimento di polizia. Lavoro in coppia con un detective del quale sono diventata amica.
Che cosa pensa delle serie poliziesche televisive? Le hanno mai chiesto di scriverne una?
I telespettatori hanno troppo la tendenza a credere che questi telefilm rispecchino la realtà. Ma non è così, al contrario. Spesso offrono una visione parziale della giustizia. Mi è già capitato di vedere la polizia arrivare sul luogo di un delitto e scoprire che i vicini avevano già raccolto le prove in sacchetti per il congelatore, persino con le etichette… Influenzate da quanto vedono in televisione, queste persone ostacolano la giustizia, e ciò è un reato. Quando sono chiamate a fare i giurati, pensano che un caso possa essere risolto in un’ora. È pericoloso. È come chi pensa che Star Trek rifletta il modo in cui funziona l’aviazione. Sì, sono stata contattata per questo tipo di produzioni, ma non sono tagliata per questo genere di cose. Quello che mostro nei miei libri è tratto dall’odierna realtà scientifica. Se cominciassi a usare dei gadget o degli strumenti che non esistono, i miei lettori si sentirebbero presi in giro.
Occupandosi spesso della morte, sembra che lei abbia sviluppato una specie di epicureismo, come quello di chi ama la buona tavola e il buon vino. È così?
Sono un particolare tipo di ottimista. I miei amici mi chiamano “Signora scenario catastrofico”, poiché spesso immagino il peggio. Per esempio, in questo momento ho un cantiere in casa, perché sto facendo montare delle grandi porte-finestre, e rendo la vita infernale agli operai. Penso che, se si vuole crescere, bisogna mettersi in pericolo, talvolta. Mi piace farmi paura: prendo l’elicottero, guido macchine e moto molto potenti e sono consapevole del fatto che i miei mezzi di trasporto se ne infischiano se mi chiamo Patricia Cornwell.
Il suo primo libro era una biografia di Ruth Bell Graham, la moglie dell’evangelista Bill Graham, scomparsa l’estate scorsa. Lei ha fede?
Ho scritto questo libro solo perché Ruth era un’amica. Non sono religiosa, perché andrei sicuramente all’inferno. Scherzi a parte, a forza di vedere corpi senza vita, sono paradossalmente sempre più convinta che vi sia qualcosa oltre la morte, una specie di continuità, un’energia che va da qualche parte, ma dove non saprei.
Dicono che lei sia molto vicina alla famiglia del presidente americano. Cosa pensa del lavoro che sta facendo George Bush?
Molti pensano che io lo sostenga, ma non è vero. Bush è a capo del governo peggiore e più corrotto che gli Stati Uniti abbiano mai conosciuto. È vero, l’ho sostenuto all’inizio, perché sono amica della famiglia, ma la cosa è durata poco. Ha fatto più danni in questo paese di chiunque altro e ci vorranno generazioni per ricostruire il tessuto sociale, ricreare una struttura economica sana, riprogettare le infrastrutture statali e recuperare la credibilità all’estero.
(Testo: Le Figaro Magazine/Sonia Henry/Volpe)
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