Comanda la tv. Registi senza idee, copiano solo i libri.
(Andrea Lanini - Il Tirreno) O lo si ama o lo si odia, Peter Greenaway. La sua opera divide, da sempre (lui lo sa, e ne è felice). Da una parte i fedeli sostenitori che lo chiamano “raffinato demiurgo”, “poeta dell’immagine” e “costruttore di sogni”, dall’altra i detrattori per i quali i suoi lavori sono soprattutto vacui esercizi di stile, sgargianti contenitori multimediali con poco o niente dentro. Gli uni e gli altri non di rado si pongono una domanda: ma com’è che Greenaway non perde occasione per ripetere che il cinema è morto e intanto continua a fare film, a fare il regista?
La risposta, dice lui, è semplice: «Non faccio film, non sono un regista». Ecco qua, nessuna contraddizione. Lo incontriamo a Poggibonsi, dove il festival “Fenice” ha dedicato alla sua arte una cinque giorni fitta di proiezioni e incontri. Alto, distinto, molto british. Elegante, sornione. Loquace, ma non perché adori starsi ad ascoltare: è semplicemente ansioso di raccontarti ciò che vede. È tutto lì, il suo mondo: l’urgenza di trasmettere una visione. Potesse, per parlare di sé userebbe uno schermo con immagini in movimento e suoni, anziché le parole. In questo senso (e in questo solo) si sente “regista”. Ma confessa che il termine gli mette i brividi: «Normalmente i registi sono quelli che fanno soldi nell’ambito dell’industria cinematografica. Io non ho soldi, e non lavoro per l’industria cinematografica. Lo star system hollywoodiano è incompatibile con la mia ricerca. Abbiamo obiettivi diversi. Il suo è intrattenere il pubblico, il mio farlo riflettere. Mi considero un esploratore dei limiti del visuale. Il mio mestiere è quello di costruire immagini su qualsiasi tipologia di medium».
Si dice che il suo primo vero amore sia stato quello per la pittura. È vero?
«Vero. Da adolescente, ero convinto che sarei diventato un pittore di paesaggi. Vengo da una famiglia che ha sempre dato molta importanza alla componente estetica della natura. I miei avi erano proprietari terrieri, un mio nonno era coltivatore di rose. Byron e il Romanticismo inglese hanno insegnato a noi britannici a sognare ad occhi aperti su queste meraviglie bucoliche. Anch’io fantasticavo sui colori delle campagne di Newport, Galles, convinto che un giorno il mio mestiere sarebbe stato quello di rappresentarli su tela. Poi, nel 1958, a sedici anni, ho visto “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman e ho capito che il mio vero amore era il cinema».
Il quale però, secondo lei, è morto dal 1983...
«È l’anno in cui l’avvento del telecomando ha sancito la superiorità incontrastata del mezzo televisivo. Il pubblico ha iniziato a disertare le sale, a guardarsi i film dal divano di casa. In America, il 70% della popolazione vede la tv, il 20% compra dvd e solo il 5% va al cinema. E che cinema trova? Una specie di libreria illustrata con storie banali e insulse. Oggi i registi non hanno idee, si rifugiano nelle storie che i testi di narrativa offrono loro. I più grandi successi degli ultimi anni sono “Il signore degli Anelli” e “Harry Potter”: questo la dice lunga sull’incapacità che il cinema ha di rinnovarsi. Il linguaggio del cinema continua ad affascinarmi, ma trovo che per i film di oggi sia assolutamente sprecato. Gli ultimi capaci di superare i limiti del cinema sono stati i registi tedeschi, Fassbinder, Wenders, Schlondorff, Straub. Gli italiani hanno fatto cose straordinarie dal’59 al’75, gli autori della “Nouvelle vague” ci hanno fatto scoprire tutto un mondo. Ma cosa resta del grande cinema europeo? I registi davvero intelligenti, ad esempio Lars von Trier, sono troppo di nicchia per trovare la forza di spazzar via la banalità dilagante».
Cos’è che le piace di più dei registi che ha citato?
«La capacità che avevano di suggerire un’atmosfera, di costruire le emozioni legate a uno stato d’animo, una vicenda, un’ambientazione. Loro si dimenticavano la trama per fare spazio a uno stile. Una trama te la puoi anche scordare, ma se il film è buono non ti scordi il sapore delle sue immagini. Se pensi a “Blade runner” non ti ricordi il plot per filo e per segno, ma la forza evocativa delle scene e l’impatto emotivo che ha avuto su di te. Se pensi a “Casablanca” ti vengono in mente degli sguardi, non tutto ciò che succede dall’inizio alla fine. Il cinema non deve essere necessariamente narrativo. I miei lavori non vogliono raccontare storie, ma abituare gli occhi di chi guarda ad un certo tipo di sguardo».
Il suo modo di raccontare le cose insegue una sintesi delle arti che nel teatro - penso ad autori come Robert Lépage e Bob Wilson - ha trovato un terreno di sperimentazione ideale. Quanto il suo percorso è accostabile alla ricerca del teatro multimediale?
«Molto. Gli autori che lei ha ricordato lavorano con la mia stessa filosofia. Infatti Robert Lépage mi ha chiesto di partecipare ad un suo progetto che partirà nel 2008 e che sarà dedicato ai 400 anni dalla fondazione di Quebec City. Sono contento di questo, il fulcro del suo lavoro risiede in una poetica dello sguardo che è trasversale a qualsiasi media e che, allo stesso tempo, da ciascun media può trarre alimento».
Parlando di cinema, tra i “poeti dello sguardo” c’è il nostro Antonioni...
««Un grande maestro. Per chi fa il mio mestiere la sua lezione è imprescindibile. Il mio ultimo lungometraggio, “Nightwatching”, è vicino al suo “Blow up”: in entrambi, tutto parte da una singola immagine. Anche Antonioni tendeva a minimizzare la parte narrativa dell’opera. Non c’è niente di strano, la pittura l’ha fatto per tutto il Novecento».
Spesso i suoi lavori sostituiscono il codice narrativo con strutture alternative provenienti dall’arte ma anche dalle scienze: colori, numeri...
«Applico alle immagini in movimento gli stessi princìpi che artisti come Robert Rauschenberg, John Cage, Piet Mondrian applicavano alle loro creazioni. Se si usano i colori e i numeri, si parla un linguaggio universale. Nel mio “Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante” ho codificato i colori dell’arcobaleno, nella saga di Tulse Luper ho comunicato attraverso i numeri».
La saga di Tulse Luper ha un obiettivo ambizioso: riunire la summa di tutte le conoscenze possibili all’interno delle 92 valigie che il protagonista porta a spasso lungo gli eventi principali della seconda metà del ’900
«Le 92 valigie costituiscono l’enciclopedia definitiva dell’era dell’informazione».
92 è anche il numero atomico dell’uranio...
«Infatti. Ogni cifra è metafora di un evento epocale. Quello legato all’uranio ci riguarda da vicino, visto che il fenomeno più influente del Ventesimo secolo è stato l’invenzione della bomba atomica. Ma la corsa all’uranio è ripresa. George Bush non è andato in Iraq per il petrolio, ma per l’uranio».
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