Oscar Giannino su Libero di martedì 27 novembre.
(TGCom) Francesco Rutelli non è un patito wagneriano. Ma secondo le ultime indiscrezioni romane, ieri sindacati e funzionari ministeriali hanno gettato le basi per il compromesso. Dunque la prima alla Scala andrà regolarmente in scena, la sera del 7 dicembre. E il ministro Rutelli, oggi, se ne intesterà il merito. Bene così, si dirà, almeno la figuraccia nazionale e internazionale a Milano viene scongiurata. Eppure no. Se finisce come sembra, è l'ennesima occasione perduta. Va bene che il Tristan und Isolde che verrà diretto da Daniel Barenboim è l'insuperabile monumento dell'annullarsi del puro amore e dello strenuo desiderio in una tale volontà di potenza, che la morte degli amanti risulta salvifica e redentrice.Ma procedendo con gli oboli di Stato alla fine saremo tutti costretti all'ultima aria di cordoglio di re Marke, il Tot den alles che celebra il fallimento del teatro stesso: ucciso da eccesso d'imposta.
In sostanza, a confrontarsi sul caso-Scala sono state due posizioni. Quella di chi dà ragione alle richieste di orchestrali e maestranze, e ha scommesso che Rutelli allentasse i cordoni della borsa: Vittorio Sgarbi la pensava così, con lui grandi direttori d'orchestra come Zubin Mehta. Probabilmente, hanno vinto. C'era poi chi, come il sovrintendente Stéphane Lissner, forte di un bilancio tomato in attivo nel 2006 (per 1,5 milioni) senza partite straordinarie, con presenze aumentate alla Scala da 335 mila nella stagione 2005-2006 a 375 mila nella successiva, h abbonati passati da l 1mila a 14.500, dietro le quinte chiedeva che a favore della Scala si facesse non uno strappo episodico, ma si attribuisse alla Fondazione uno status - e contributi, dunque - da Teatro Nazionale, separandola nettamente rispetto alle altre 13 Fondazioni lirico-sinfoniche sovvenzionate dallo Stato. Le autorità cittadine, a cominciare da Letizia Moratti che per gli aiuti del Comune ai 14 teatri milanesi ha abbastanza le mani legate, aspettavano che il governo decidesse. Forse ci sarebbe stato e ci sarebbe ancora bisogno di una terza posizione, di un colpo d'ala, che mobilitasse insieme non solo la politica cittadina e lombarda ma tutta la Milano privata che coi suoi contributi copre i152% delle risorse della Fondazione, rispetto al 48% pubblico. Noi qui ne siamo convinti, e ve ne spieghiamo il perché.
Ma prima, un passo indietro. Per capire meglio le richieste di chi alla Scala lavora. Sotto Lissner, che per due volte salvò il festival di Aix evitandogli i libri in tribunale, alla Scala sono stati messi sotto pressione. Agli orchestrali, per dirne una, è applicato il tempo pieno: niente più assenze "strategiche" per dedicarsi in proprio alle formazioni di musica da camera, alle prove non sono ammesse assenze se non per motivi medici, e prima non era così. Grazie a ciò nella stagione 207-2008 si prevedono ben 260 "alzate di sipario", con il teatro aperto quasi 25 sere al mese. Ma ai dipendenti è saltata la mosca al naso, per via della Finanziaria. L'aumento del Fondo unico per lo spettacolo (Fus), da 444,3 milioni di euro nel 2007 a1536,8 nel 2008, non si accompagna infatti a un meccanismo di premio e incentivo ai virtuosi, a chi è capace di tenere bilanci in ordine con spettacoli di qualità.
Un emendamento di maggioranza è stato pensato ad hoc per la situazione catastrofica del San Carlo di Napoli, prevedendone l'estensione del commissariamento da 6 a 12 mesi, e l'accesso a uno sportello speciale per ridurne il debito. Come dire: chi s'indebita di più, più viene ripianato a spese nostre. E alla Scala si pensa: e noi, che abbiamo tirato la cinghia? Forse non hanno tutti i torti. Ma è giusto invocare denari pubblici e assunzioni concesse a chi li merita meno, per chiederli anche per sé? Altrettanto probabilmente no, almeno dal nostro punto di vista: amiamo l'opera e la musica, ma li vorremmo gestiti come nei grandi teatri americani, con più privati a finanziare allestimenti redditizi, pochissimi dipendenti fissi e i più contrattualizzati per gli spettacoli, e cartelloni non di repertorio, ma realizzati una volta sicuri di vendere proficuamente gli allestimenti, in circuiti nazionali, europei e mondiali.
La seconda posizione, quella di Lissner anche se non l'ha mai ufficializzata in dichiarazioni pubbliche, ritiene che la Scala sia il massimo teatro italiano anche per proiezione mondiale, e dunque tale status andrebbe riconosciuto come Teatro Nazionale. Perciò, alla Scala dovrebbe andare molto di più del magro 15% che le spetta sui circa 220 milioni di euro l'anno che a dividersi sono le 14 Fondazioni lirico-sinfoniche nel loro complesso. Anche tale tesi ha un suo fondamento. Ma andatela a spiegare a Rutelli e all'Opera di Roma, che il risanamento l'ha avviato prima e più energicamente della Scala, tra il 99 e il 2004.
Di qui, la necessità di un terzo partito. Che, purtroppo, è mancato. È possibile che i Confalonieri e i Tronchetti, tutta l'imprenditoria e la finanza milanese che tanto alla Scala tiene e che più potrebbe finanziarla, non si renda conto della miseria complessiva dell'ennesima richiesta "cappello in mano" a Rutelli? Ogni dramma inventato riflette un dramma che non s'inventa, dice una regola del teatro. E poiché il teatro è un predicatore laico che propaga le idee del suo tempo, come diceva August Strindberg, abbiamo tutti il dovere di guardare con oggettività alla necessità di un ulteriore salto di qualità, nella gestione della Scala rispetto ai conti pubblici Nei 5 anni pre-Lissner, la Scala aveva accusato deficit per circa 42 milioni di euro. Ora che le cose vanno meglio, la Milano pubblica e privata dovrebbero offrire al governo un pacchetto complessivo: lo status di Teatro Nazionale può anche attendere, se la Fondazione La Scala si facesse essa protagonista di un'iniziativa rivoluzionaria. Farsi capofila di un modello organizzativo volto a innalzare la qualità e ad accrescere efficienza e utili tramite cartelloni e allestimenti il più possibile "comuni" - per ottimizzame i costi - tra le altre 13 Fondazioni che volessero aderirvi. Non bastano più esempi di virtù contabile "isolata", come il Teatro Massimo di Palermo che, dopo anni di sfracelli e un severo riassetto, ha chiuso il bilancio 2006 con un utile di 4,2 milioni. Occorre una programmazione comune su criteri di premialità economica, garantendo stanziamenti addizionali a chi realizza migliori conti economici, e incentivando così i privati a innalzare il proprio sostegno. Chi, se non la Scala, in Italia può farlo? Nel Tristan, l'eroe islandese Morold, che pretendeva un tributo da re Marke, finisce ucciso. Attenti che se ci si riduce solo a batter cassa senza capacità di risultati all'altezza, si finisce allo stesso modo: un triste Tristano, anche se andrà in scena.
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