Ndr. Quanta superficialità e mancanza di serietà c'è nel giornalismo italiano. Era ormai appurato che Claudio, il giovane romano suicidatosi gettandosi sotto il metro nei giorni scorsi, non aveva compiuto il gesto estremo perchè gay, almeno secondo la famiglia, un pò più dubbiosi ma poco attendibili gli amici, che i giornalisti in cerca di sensazionalismo ci riprovano. Dopo il tentativo di appropazione propagandistica con articoli di riprovazione oleografica e successive scuse alla famiglia da parte di Fabrizio Marrazzo, l'Arcigay nazionale e Gay.tv, ci prova Panorama. Come se nulla fosse successo. Vorremmo conoscere le fonti di questa signora Gandus che firma l'articolo. Una vergogna.
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Famiglia & tabù: mamma mia, sono gay.
(Valeria Gandus - Panorama.it) Lunedì 12 novembre, mentre l’Italia si interrogava sulla morte assurda di un giovane tifoso e la violenza di orde di suoi coetanei, un altro ragazzo di 22 anni toglieva il disturbo in silenzio. Si chiamava Claudio, aveva 22 anni ed era studente di economia a Tor Vergata. Prima di suicidarsi ha mandato un sms agli amici spiegando la ragione di quel gesto: Claudio era gay e, non riuscendo ad affrontare le discriminazioni che subiva per il suo orientamento sessuale, aveva trovato come unica soluzione il suicidio. Oltre a quel gesto estremo, di Claudio non si sa molto. Non si sa, per esempio, se la famiglia fosse al corrente della sua omosessualità. Ma è probabile che non lo fosse: se avesse avuto il conforto di amici e familiari solidali, Claudio forse non si sarebbe sentito così solo e impotente ad affrontare la cattiveria del mondo.
«La conoscenza dell’omosessualità dei propri figli aiuta le famiglie a prevenire la violenza contro di loro perché li fortifica» spiega infatti Alessandro Galvani, educatore dell’Agedo, l’Associazione di genitori, parenti e amici di omosessuali che offre sostegno ai ragazzi gay e alle famiglie. «Essere capiti e appoggiati dai propri cari li mette in condizione di reagire alle violenze invece di subirle».
Ma dirlo ai genitori è ancora oggi un problema, anzi il problema per i ragazzi e le ragazze che scoprono di avere un orientamento sessuale differente da quello dei loro coetanei. E accettare questa peculiarità è altrettanto difficile per i genitori, anche i più aperti, del tutto impreparati a confrontarsi con figli diversi da quelli che credevano di conoscere.
«Chiunque abbia un figlio prefigura per lui, o per lei, un futuro fatto di fidanzamenti, convivenze, matrimoni, figli» ricorda Galvani. «L’ipotesi di poter generare un omosessuale non è contemplata, o se è presa in considerazione, lo è in modo puramente teorico». Per i ragazzi non è diverso: quella omosessuale è una condizione a cui nessuno li ha preparati: invaghirsi di un compagno di scuola invece che di una compagna è una rivelazione che per primi faticano ad accettare.
«Io m’ero accorta presto, già verso i 14-15 annni, che mia figlia era omosessuale» dice Patrizia Querini, madre di Benedetta Emmer. «Tante cose lo suggerivano: il rapporto con le amiche, l’attaccamento esagerato a qualcuna di loro, le ansie e le delusioni per queste relazioni». Ma Benedetta, molto riflessiva e chiusa, non si confidava. «Ha aspettato fino ai 25 anni. Anche se a modo suo lo diceva, magari venendo a cena con amiche vistosamente gay. E comunque sapeva che in famiglia eravamo aperti e che in me avrebbe trovato tutto l’appoggio possibile».
Eppure per Benedetta, oggi splendida quarantenne al nono mese di gravidanza (inseminazione artificiale a Londra), è stato difficile non solo parlarne con i genitori ma prendere lei stessa atto della sua condizione: «La prima fidanzata l’ho avuta a 21 anni, prima avevo avuto solo ragazzi» racconta. «La scoperta di poter avere relazioni erotiche con le femmine mi ha mandato in crisi: sono entrata in conflitto con me stessa, ho faticato ad accettare questa realtà».
A quei tempi l’omosessualità era un argomento tabù in molte famiglie (anche se non in quella di Benedetta) e le poche organizzazioni gay erano più sensibili all’aspetto politico che a quello privato della questione. Per un giovane il coming-out risultava difficile sia in famiglia sia fuori. Ma anche oggi che la mentalità pare cambiata e i gay impazzano al cinema e in tv (un certo tipo di gay: tanto vistosi quanto lontani dalla realtà), fra i giovani e le giovani omosessuali il silenzio, la chiusura in se stessi, la paura di confrontarsi su questo aspetto così importante della vita, è pratica comune: secondo i dati dell’Arcigay, l’83 per cento degli omosessuali tiene all’oscuro la famiglia della propria condizione. In attesa che qualcuno o qualcosa li aiuti ad accettarsi e a disvelarsi.
Qualcosa che può essere la rete, buca virtuale delle lettere dove inviare richieste d’aiuto e coming-out o trovare consigli di esperti e siti dedicati. Ma più spesso l’aiuto viene da associazioni come l’Arcigay, che con la sua Gay help line, un numero gratuito, fornisce ascolto, sostegno e informazioni in forma riservata; o la Listalesbica, che fa lo stesso online.
In aiuto dei genitori vanno organizzazioni come l’Agedo, dove lavorano come volontari padri e madri che mettono a disposizione di altri genitori la propria esperienza, fornendo un supporto umano e psicologico.
Tutti hanno alle spalle storie che li hanno cambiati. Come quella di Mila Banchi, responsabile dell’Agedo Toscana, con sede a Livorno. «Jacopo aveva 17 anni quando s’è confidato con sua sorella Marta, di 3 anni maggiore» racconta. «Lei pensava che non avesse le idee chiare e l’ha frenato nel dichiararsi coi genitori. Io invece l’ho capito senza che me lo dicesse: approcci inconcludenti con le ragazze, tante amiche del cuore e nessun innamoramento. Finché un giorno ho visto in lui gli occhi di una persona innamorata. Di un ragazzo. Ed è stato un colpo al cuore».
Pianti e lacrime («non me li perdonerò mai» dice ora Mila), poi la paura: «Che qualcuno potesse ferirlo, che rimanesse vittima del bullismo, che facesse incontri sbagliati». E il padre? Come la figlia non era sicuro che l’orientamento sessuale di Jacopo fosse definitivo e gli ha imposto un percorso psicologico. «Per fortuna la scelta è caduta su uno psichiatra serissimo che ha capito subito tutto e non ha messo in dubbio il mio orientamento sessuale, tantomeno ha cercato di correggerlo» dice oggi Jacopo.
Ma la strada per l’accettazione in famiglia è stata ancora lunga. «Eravamo persone aperte, avevamo vissuto negli Stati Uniti, a Boston, dove l’omosessualità è totalmente sdoganata. Eppure, il percorso è stato lungo e difficile» ricorda Mila. «Quello che ha lavorato più di tutti è stato Jacopo: ci ha accompagnato con pazienza a scoprire questa realtà per noi nuova, ci ha redarguito quando dicevamo scemenze, ci ha portato nei locali che frequentava, ci ha fatto conoscere i suoi amici». Un’iniezione di normalità, insomma, la dimostrazione pratica che la vita di un ragazzo gay non è poi troppo diversa da quella degli altri.
«Ed è proprio così» assicura Claudia Toscano, orgogliosa madre di Manlio. «Mai avrei pensato, tanti anni fa, che avrei avuto un figlio di 31 anni affermato nel lavoro e in coppia con un uomo. E invece Manlio convive felicemente da 2 anni con Claudio (sono insieme da 10) e io e mio marito siamo affezionati a lui, il miglior genero che potessimo sperare».
Manlio, figlio unico, buon carattere, aveva 17 anni quando si presentò ai genitori con un fascio di fogli di giornale sotto il braccio e un’aria seria. «Devo dirvi una cosa: sono gay». E senza nemmeno dar loro tempo di riprendersi dalla notizia dispiegò i fogli (un inserto del Corriere Salute sull’omosessualità) e ne riassunse il contenuto (l’omosessualità non è una malattia). La prima reazione della madre (il padre era ammutolito) fu d’incredulità: «Ne sei sicuro?». La seconda quasi di offesa: «Perché non ce l’hai detto prima?». La risposta di Manlio, lapidaria: «Perché avevo paura che mi metteste alle calcagna uno strizzacervelli. Non fatelo, sto benissimo».
Dice Claudia che i primi tempi dopo la rivelazione furono dolorosi («dove abbiamo sbagliato?») e stranianti: «Vigeva una specie di silenzio-assenso: “Fa’ quel che vuoi, ma noi non vogliamo saperne niente”». Un atteggiamento di difesa, sbagliato, dice oggi. «Ci pareva di avere in casa un estraneo e ci tenevamo a distanza. Poi, lentamente, le cose sono cambiate. Soprattutto non abbiamo avuto più paura. Perché bisogna dirlo: il pregiudizio crea paura. Di un futuro di dolore e difficoltà per il proprio figlio omosessuale».
Oggi Claudia è volontaria al centro Jonathan di Pescara, dove da qualche anno si è trasferita, ed è referente dei genitori con figli gay. È attiva e battagliera, ma ha un rimpianto: non aver capito prima che cosa stava succedendo a suo figlio. E a tanti dei suoi studenti (ha insegnato per anni alle medie): «In classe almeno uno su 20, secondo le statistiche, era così e io non me ne sono accorta: avrei potuto aiutarli, far loro coraggio, e invece li ho lasciati soli, disorientati, impauriti».
Ma anche chi capisce può avere rimpianti. È il caso di Laura Mariotti Manfredi, responsabile con il marito Lino dell’Agedo a Torino. «Andrea non ci ha detto niente. Ho scoperto tutto io facendo una cosa di cui mi vergogno: frugare fra le sue cose» racconta. «L’ho fatto a fin di bene, per capire che cosa c’era alla base di quel suo cambiamento d’umore, di un’aggressività esagerata anche per un adolescente come era lui all’epoca». E fra le sue carte ha trovato la risposta: fogli con su scritto «amo Miky («e fra i suoi amici non c’era nessuna Michela ma un Michele») e una lettera d’amore di un certo Marco.
«È stato un colpo» ricorda Lino, il padre, «ma naturalmente ha prevalso l’amore per nostro figlio. E separatamente, senza nemmeno dircelo, Laura e io abbiamo fatto la stessa cosa: gli abbiamo scritto una lettera».
«Me l’ha portata il mio migliore amico, che i miei genitori avevano scelto come tramite ignorando che fosse anche lui gay» ricorda Andrea. «Erano lettere molto simili, mi rassicuravano sul fatto che nulla sarebbe cambiato, che sarei stato sempre il loro figlio amatissimo. Io invece di sentirmi sollevato sono rimasto paralizzato: per un giorno intero non sono uscito dalla mia camera nemmeno per parlare. Poi ho finalmente trovato il coraggio».
La sofferenza è stata di tutti e tre. «Sono stato malissimo, ho faticato molto ad accettare la situazione» ammette Lino. «Io, invece, all’inizio mi sono sentita offesa: perché non me l’aveva detto, perché mi aveva esclusa?» dice Laura. Il motivo era semplice quanto doloroso: la sorella maggiore di Andrea, una ragazza disabile. Il ragazzo non voleva dare ai suoi genitori un altro dolore, caricarli di un altro problema.
Dice Lino, il padre, che il percorso di accettazione è stato lungo e doloroso: 2 anni per elaborare una sorta di lutto, seppellire la vecchia immagine del figlio e far nascere quella nuova. «Ma anche noi siamo rinati: oggi possiamo dire di essere diversi: più ricchi, attenti, sensibili».
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