(Panorama) L’Italia fa ancora la sua figura, almeno all’estero. L’ultima edizione del Nation brands index (Nbi), la rilevazione sulla reputazione delle nazioni condotta dal britannico Simon Anholt
attraverso 30.000 interviste in tutto il mondo, la colloca al settimo posto sui 38 Paesi rilevati. La classifica, aggiornata al primo semestre 2007, vede al primo posto il Regno Unito, seguito dalla Germania e dalla Francia. Gli Stati Uniti pagano lo scotto della politica estera degli ultimi anni e sono soltanto decimi.
Ma come fanno le nazioni a costruire la propria immagine? Anholt nel suo libro L’identità competitiva. Il branding di nazioni, città, regioni (Egea) individua sei canali naturali attraverso i quali i Paesi comunicano con il resto del mondo: il turismo; le marche d’esportazione; le politiche del governo; il trattamento di immigrati e investitori stranieri; gli scambi culturali in senso lato; i comportamenti della popolazione. L’Italia la fa da padrona nel turismo (prima) e nella cultura (seconda), ma risulta piuttosto debole nella politica (quindicesima). Nonostante il risultato del 2007 non sia da buttare, il nostro paese è in lento declino “a causa di una cattiva reputazione in settori oggi considerati molto importanti, come le tecnologie e il rispetto dell’ambiente”, sostiene Anholt. Proprio il contrario della Germania, debole sugli aspetti che lo studioso chiama soft (le persone, il paesaggio, la cultura, la moda e il cibo), ma forte per gli aspetti strong (governance, economia, ingegneria marche). Secondo Anholt “se si verificasse una fusione tra i due Paesi si potrebbe probabilmente creare la nazione con l’immagine più forte dell’intero pianeta”. L’ipotesi, ovviamente, può stare solo sulla carta e nella realtà l’Italia si accontenta di stare a guardare il grande circo mediatico che coinvolge il globo, senza di fatto entrare a far parte del gioco.
In un calcolo separato, Anholt stima che il brand Italia valga 2.932 miliardi di dollari. Non è poco, però è bene correre subito ai ripari per evitare il declino a cui già stiamo assistendo. Quando le identità dei paesi entrano in competizione tra di loro nessuno, nel breve periodo, può fare molto per modificarle: “È un punto fermo dell’identità competitiva che i paesi debbano guadagnarsi la loro reputazione e non costruirla”, scrive Anholt nel libro, “ma sembra perfettamente legittimo prendersi la briga di occuparsene”. Insomma, il branding territoriale è il risultato di una strategia, implementata attraverso politiche pubbliche e comportamenti privati coerenti. Cosa dovrebbe fare l’Italia per cambiare il trend negativo? Sicuramente, secondo Anholt, puntare sulla lingua inglese, che da noi viene insegnata poco e male. Questo fa sì che il Belpaese non venga scelto come luogo in cui andare a studiare, imparare, lavorare e questo fattore potrebbe diventare un pesante handicap. Non basta essere considerati la culla della cultura, perché si rischia di diventare soltanto un luogo di vacanza, una cartolina da appendere sul caminetto al rientro a casa in un paese in cui, invece, le cose si fanno sul serio.
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