(Gaia Rau - L'Unità) Tossicodipendenze, carceri, problemi di salute mentale, immigrazione. Il disagio aumenta di pari passo alla complessità della società e alimenta una percezione di pericolosità davanti alla quale troppo spesso l'unica risposta è quella dell'emarginazione e della criminalizzazione.
La seconda giornata del seminario sul Welfare organizzato dall'Arci a Torino si apre con una riflessione sul disagio sociale in tutte le sue forme, e sulle risposte che le istituzioni sociali e politiche sono chiamate a darvi. Risposte che devono necessariamente essere concrete, positive, e che devono guardare alle cause di questo malessere tanto quanto ai suoi effetti.
Ancora una volta il riferimento è alla cronaca più recente, alla tragedia di Tor di Quinto, all'inferno dei campi rom e al conseguente dibattito sulla sicurezza. Forme odierne di sofferenza che, per Maria Grazia Giannichedda, presidentessa della fondazione Franco Basaglia, ricordano da vicino la situazione che si creò con la chiusura dei manicomi in seguito alla legge 180 del 1978.
«Non si può chiedere a un territorio di affrontare, di ospitare una situazione problematica, se non si danno al tempo stesso delle risorse e delle motivazioni per farlo». La Giannichedda ricorda la chiusura del manicomio di Trieste, la paura scatenata dall'incontro della città con una realtà sconosciuta, oscura, la difficoltà di intervenire a fianco dei malati e al tempo stesso dei cittadini, di creare un incontro tra questi due mondi così diversi per permettere una forma di convivenza, di interazione. «A quel tempo ci siamo posti il problema della sicurezza, abbiamo dovuto prenderci la responsabilità di quello che facevamo, consapevole che la libertà di quelle 1200 persone aveva dei costi sociali».
Con i rom è un po' la stessa cosa. «Non servono politiche compassionevoli, miserabiliste, ma bisogna investire delle risorse, creare delle politiche sociali che siano anche politiche di sviluppo, facendo cose concrete». La presidentessa della fondazione Basaglia cita a questo proposito esempi di integrazione riuscita, dal caso delle periferie disagiate come Tor Bella Monaca, a cui il teatro diretto da Michele Placido ha restituito nuova vitalità, all'esperienza dell'Esquilino. «A livello locale abbiamo un patrimonio di pratiche che dimostrano che la convivenza è possibile, anche in aree di potenziale conflitto, basta creare dei luoghi, portare delle risorse, dei contenuti».
Filippo Miraglia, responsabile nazionale Arci per l'immigrazione, fa l'esempio delle migliaia di persone che risiedono in Italia per motivi di asilo politico. «Lo Stato dà loro il diritto a rimanere nel nostro Paese, ma poi non dà nessuna risposta in termini di accoglienza». Così - continua - «queste persone si riversano in realtà di disagio abitativo preesistenti, come i campi rom, e le situazioni problematiche si moltiplicano».
Quello della concretezza, delle pratiche sociali è dunque l'unico Welfare possibile, l'unico che possa affrontare le sfide della contemporaneità e delle nuove forme di malessere. Anche perché altrimenti si rischia di cadere nell'errore di pensare che l'unica soluzione possibile sia quella della criminalizzazione. E per un'associazione come l'Arci- continua Miraglia - «non è possibile rimanere neutrale di fronte alla criminalizzazione del disagio».
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