Anniversario. Al Rossetti e dal 14 dicembre a Palazzo Gopcevich.
(Arianna Boria - Il Piccolo) Un Giorgio Strehler trentacinquenne che gesticola, che fuma, che beve un caffè. Uno Strehler rilassato, quotidiano, vestito «comunemente» in giacca e cravatta, così diverso dal personaggio teatrale, in dolcevita nero, profilo imperativo e nido di capelli bianco-azzurrini (il celebre cachet del barbiere di via Rovello, di fronte al vecchio Piccolo Teatro...), immobilizzato per sempre nell’iconografia ufficiale delle pose di teatro. Sono tre le immagini, inconsuete, confidenziali, che danno la chiave di lettura del percorso scelto dall’amministrazione comunale per ricordare il maestro, a dieci anni dalla morte, avvenuta a Lugano nella notte di Natale del 1997.
Uno dei triestini più celebri al mondo, eppure ancora così estraneo alla sua città, alla quale fu sempre legato da un rapporto incostante e umorale, lo stesso con cui Trieste lo ricambiò. «Co’ te son via, te vol sempre tornar. Ma co’ te son qua, no te vedi l’ora de scampar via», diceva il regista. Che alla fine, però, scelse di riposare proprio qui, nel cimitero di Sant’Anna, dove è sepolto nella tomba di famiglia accanto alla mamma, Alberta Lovrich, apprezzata violinista, e al nonno Olimpo, musicista e impresario teatrale.
S’intitola «Strehler privato. Affetti, caratteri, passioni», la mostra che si aprirà il 14 dicembre, a Palazzo Gopcevich, visitabile fino al 2 marzo 2008. Testimonianze dei risvolti meno conosciuti della vita privata di Giorgio Strehler, dei suoi interessi, delle sue passioni, delle sue letture, delle sue debolezze, ma anche dei rapporti con gli attori, i politici, i grandi intellettuali, i colleghi registi, i drammaturghi del suo tempo. Documenti, oggetti, fotografie, corrispondenze, che escono per la prima volta dal Fondo Strehler custodito a Palazzo Gopcevich, nell’ambito del Museo teatrale Schmidl, parte della donazione dell’archivio privato del regista fatta dalle sue eredi, la moglie Andrea Jonasson e l’ultima compagna, Mara Bugni, al Comune di Trieste nel 2005.
All’omaggio al regista collabora il Teatro Stabile Rossetti, dove domani, alle 18, si aprirà la prima sezione della mostra, che valorizza con immagini, locandine, programmi di sala, gli undici spettacoli strehleriani rappresentati a Trieste, prima all’Auditorium e poi al Rossetti. Un arco temporale che va dal 1968, quando andò in scena «Io, Bertolt Brecht», fino al marzo scorso, quando Ferruccio Soleri portò al Politeama il celebre «Arlecchino servitore di due padroni».
Al taglio del nastro di domani parteciperà Milva, uno dei personaggi strehleriani. E di qui a fine anno, come ha già fatto Franco Branciaroli, protagonista di «Vita di Galileo», lo spettacolo d’apertura della stagione di prosa del Politeama, altri attori leggeranno brani di Strehler, nei prossimi giorni Massimo Dapporto, e, in dicembre, Giulia Lazzarini, che darà voce a «Elvira o la passione teatrale», una delle lezioni del maestro.
I due momenti dell’omaggio triestino - al Gopcevich e al Rossetti - sottolineano anche l’integrazione del Fondo Strehler con l’archivio dello Stabile, che il museo Schmidl ha recuperato anni fa dalle insalubri soffitte del teatro, ha catalogato e custodito. Un’operazione di «salvataggio della memoria» oggi più che mai importante e significativa per il ricordo del maestro.
Non sono molte le celebrazioni in cantiere in Italia per il decennale della scomparsa del regista triestino, il cui lascito creativo e intellettuale sembra ancora ingombrante: «La storia della bambola abbandonata» rappresentata al Piccolo Teatro di Milano, e fortemente voluta soprattutto da Andrea Jonasson, qualche iniziativa già svoltasi a Torino e altre programmate a Roma sotto Natale. «A dicembre - anticipa l’assessore alla Cultura del Comune di Trieste, Massimo Greco - concludiamo le iniziative dell’anno con due mostre, su Strehler e su Ettore Sottsass, due protagonisti del secolo appena chiuso. Qual è il filo che li lega? Curiosamente entrambi hanno operato a Milano, pur avendo forti influssi centro-europei. Attraverso queste due personalità, impegnate in settori così distinti, la politica culturale triestina ha occasione di riflettere e di riprendere i legami con le proprie specificità, sia geografiche che intellettuali».
L’allestimento a Palazzo Gopcevich è curato dal critico teatrale Roberto Canziani, con il coordinamento del direttore dei Civici musei di storia e arte e del museo «Schmidl», Adriano Dugulin. Sei «ambienti» ricostruiscono il mondo affettivo e creativo di Strehler, invitando il visitatore a entrare in sintonia con l’uomo, oltre che con l’artista.
All’inizio del viaggio due momenti indicano come «leggere» l’allestimento: la risposta data da Strehler in un’intervista a Dacia Maraini, dove l’infanzia a Trieste viene identificata con la felicità («Eri un bambino felice? ”Molto felice. Ho avuto un’infanzia piena di musica. Mi addormentavo sentendo in una stanza vicina mia madre che suonava il violino”. Fin quando è durata questa felicità? ”Fino verso i nove anni. Poi con il trasferimento a Milano, con l’ingresso a scuola, è avvenuto lo strappo. E’ finita la mia felicità”»), e la silhouette fotografica in grandezza naturale del regista reclinato su uno dei bauli dell’Arlecchino, ideale ingresso nel suo mondo artistico.
Le letture di Strehler occupano il primo spazio. I libri di lavoro, Brecht, Goldoni, accanto agli Urania di fantascienza, genere che prediligeva. Quelli «del cuore», volumi antichi e forse acquistati sulle bancarelle parigine, volumi di formazione teatrale, Craig, Stanislavskij, Reinhard, volumi legati a particolari episodi, come le liriche di Montale con annotazioni manoscritte di Strehler, da cui spunta un dattiloscritto con il discorso da pronunciare in occasione della morte del poeta.
C’è poi il mondo del lavoro quotidiano, che suggerisce l’atmosfera in cui doveva essere immerso, a casa e nel suo studio al Piccolo Teatro. Accanto alle penne, ai nastri magnetici, ai copioni, si vedranno le testimonianze delle sue fitte corrispondenze, dei rapporti internazionali che intratteneva con il Metropolitan di New York, con il National Theatre di Londra, con personaggi come Herberth von Karajan e Glenda Jackson. Stretto il legame con Bertolt Brecht che, dopo la morte del drammaturgo tedesco, continuò con la moglie, l’attrice Helen Weigel (fu proprio lei ad annunciare a Strehler, con un telegramma, la morte del marito, avvenuta il 14 agosto 1956).
In quest’ambito, insieme ai materiali che accompagnano la lavorazione delle «Smanie per la villeggiatura» e del «Flauto magico», si potranno ammirare una serie di studi fotografici in bianco e nero, scattati da Luigi Ciminaghi, fotografo di riferimento del Piccolo Teatro, in preparazione di uno spettacolo goldoniano, forse le «Baruffe chiozzotte» o il «Campiello»: paesaggi lagunari, scorci di Chioggia e Venezia, calli e piazzette.
Strehler privato, ma in una dimensione «non mortuaria, bensì fantasmatica», spiega Canziani. Le teche dedicate agli affetti costituiscono un reliquario delicato, appena appena ironico, sicuramente non funebre. Scopriamo così le cartoline al padre, le lettere alla mamma in tournée (nell’aprile del ’29: ”Cara mammi, scusami, è vero sono un grosso pigrone, malgrado questo, ti penso sempre e desidero che tu torni presto...”.), quelle scritte alla prima e alla seconda moglie, Rosita e poi Andrea. E gli oggetti legati alle superstizioni di Strehler, un tratto poco conosciuto: volumi esoterici e libri della cabala, portafortuna e pendagli, un oroscopo che si fece confezionare a Parigi... In mostra ci sarà anche l’esame grafologico della scrittura del regista, fatto elaborare apposta per quest’occasione da un esperto nazionale.
Molti i personaggi che si affollano nelle lettere e che aiutano a ricostruire la ricchezza e la complessità di un mondo di rapporti, intellettuali ma anche politici, «civili»: da Mastroianni a Visconti, da Abbado a Moravia, da Montale a De Filippo, da Nenni a D’Alema, alla Iotti a Krizia... Il 3 ottobre 1989 Federico Fellini, col quale intrattenne un legame fortissimo, di stima reciproca, di affetto, scherzi e confessioni, gli invia una breve nota: ”Carissimo amico mio, la letterina che mi hai scritto per invitarmi al tuo spettacolo mi ha toccato, commosso e la mortificazione il dispiacere nel doverti deludere sono brucianti, ma non posso, Giorgio caro, questa sera non mi è possibile... Dovremmo vederci però almeno qualche volta. Verrò a Milano alla fine di ottobre, ti riconoscerò perchè sei sempre molto bello. Un bacione. F.”
Alla mostra si affianca una pubblicazione, con contributi scientifici di Roberto Alonge, Paolo Puppa, Barbara Sturmar, quest’ultimo centrato su un progetto cinematografico di Strehler dedicato a «La coscienza di Zeno»¸ che mai vide la luce e per il quale il regista avrebbe voluto Mastroianni o Peter O’Toole (Strehler fu scioccato dalla brutale risposta del produttore Carlo Ponti, che lo snobbò con un ”Vedi secondo me non va bene: perchè non è sexy, capisci? Manca la ”donna”. Un film è la donna! La femmina”).
Nel libro, infine, un ricordo del regista e scrittore Furio Bordon, che raccorda, ancora una volta, l’uomo e l’artista Strehler: «... i suoi spettacoli erano così affascinanti, perchè la bellezza formale era sostenuta da un’inventiva inesauribile e costante, che nel pubblico rinnovava in ogni momento la sorpresa, la commozione, il divertimento. Strehler bruciava di allegria, di vitalità: al di là della sua corda raziocinante, aveva una concezione del teatro ludica, infantile, voleva creare meraviglia ed emozione, voleva far ridere e piangere, come nella tradizione della nobile guitteria teatrale...».
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