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mercoledì 3 ottobre 2007

Salvare un paese da sé stesso: idee per una politica culturale.

(Locanda riformista) Queste righe – con qualche minima differenza – furono presentate al congresso nazionale della Sinistra Giovanile del marzo 2007, come integrazione alle tesi nazionali in cui la cultura non era menzionata. Il documento venne assunto dopo essere stato approvato in tutta Italia. Ciononostante è praticamente inedito: pochi lo lessero, pochissimi lo capirono, nessuno l’ha usato come spunto per fare iniziativa politica. In ogni caso rappresenta la linea in materia di politiche culturali con cui i giovani diessini si avviano a costituire il partito democratico. Loro non lo sanno, ma è così]

Il dibattito sulle politiche culturali, gli investimenti destinati alla cultura, la cultura come elemento di diversificazione anche economica del Paese può essere rappresentato con due tipologie di approccio. La prima è il cosiddetto “effetto Bilbao”: l’investimento in cultura come strumento di marketing territoriale, di promozione internazionale, di produzione di indotti economici di servizio e terziario. L’effetto Bilbao è un fenomeno molto dibattuto, su cui cominciano ad emergere valutazioni critiche ma ha una sua legittimità in termini di sviluppo e pianificazione urbana.
Il secondo approccio considera la cultura come elemento di welfare locale: l’investimento in cultura come elemento di promozione e sostegno alla comunità locale.
Se si considera la cultura come elemento di welfare – vale a dire come uno degli elementi che contribuiscono al benessere di una comunità, in termini sociali, economici, relazionali, culturali – è evidente che si devono promuovere politiche pubbliche che sostengano, supportino e infrastrutturino un’offerta culturale plurale, diffusa, accessibile.
Questi due approcci spesso vengono definiti in termini esclusivi, quasi che l’uno possa escludere l’altro, con il rischio di semplificare e impoverire la vitalità di un’offerta culturale che, al contrario, deve sapersi porre come offerta plurale, eterogenea, differenziata.
Investire in cultura come elemento di marketing territoriale – e usare i luoghi della cultura come strumento di pianificazione urbanistica e di trasformazione del territorio – non esclude il fatto che siano necessari altrettanti investimenti negli elementi intangibili, immateriali, creativi dell’offerta culturale.
Vale a dire: i luoghi della cultura – teatri, spazi espositivi, biblioteche, musei, luoghi di spettacolo dal vivo – hanno bisogno di pubblico ed hanno bisogno di soggetti che li riempiano, li sostanzino, li rendano vitali. Ed è bene sottolineare che non esiste “un pubblico” di cultura, ma esistono “pubblici” che accedono alla cultura in modo differente e plurale, con motivazioni individuali e collettive diverse, con educazione e sensibilità profondamente differenziate.
La formazione dei pubblici di cultura spesso è un tema che appartiene all’associazionismo culturale che interviene non soltanto per fidelizzare “pubblici alti” – per i quali sono le istituzioni locali che formano l’offerta ed il “cartellone” - ma spesso investe in termini di educazione, didattica, formazione, diffusione di offerta culturale consentendo accesso a pubblici meno colti e difficilmente raggiungibili.
In questo contesto, la cultura come politica di welfare deve essere concepita come elemento di promozione di cittadinanza, di inclusione e ricucitura del tessuto sociale della comunità locale.

Inoltre occorre considerare che i processi creativi crescono e si affermano in modo difficilmente riconducibile a semplici logiche economiche e di mercato – anche se con queste di confrontano e si scontrano. Le realtà più interessanti a livello europeo - capaci di produrre e offrire tendenze e aprire strade di produzione creativa – non necessariamente sono nate all’interno di luoghi asettici, deputati a promuovere cultura. Le culture urbane, i fenomeni di creatività e di contaminazioni culturali più interessanti nascono in modo spontaneo ma si affermano se riescono ad intercettare un sistema pubblico interessato a promuoverle, sostenerle e farle crescere.

In termini di scenario non solo nazionale ma europeo, si può parlare della fine di un’epoca: l’attuale meccanismo di sostegno diretto attraverso l’erogazione di contributi a fondo perduto da parte del pubblico come politica di sostegno all’associazionismo culturale è destinata a diminuire.
Senza voler entrare nel merito di un dibattito che sta coinvolgendo reti, networks, associazioni e autorità nazionali e locali in tutta l’Europa, il rischio di una riduzione della spesa pubblica in cultura può diventare in tempi rapidi un dato strutturale e non contingente.
Questo significa che sta avvenendo una rivoluzione copernicana in termini di organizzazione e capacità dei soggetti e degli attori pubblici e privati a promuovere attività e iniziative all’interno di una complessità finanziaria, progettuale e politica inedita.
Sempre più le associazioni culturali si improvvisano competenze in termini di fund-raising, diversificazione progettuale, amministrazione, project-management, marketing e comunicazione. D’altro canto le Amministrazioni pubbliche sono dibattute dalla necessità di concentrare e scegliere, di definire priorità e requisiti di accesso alle risorse senza essere attrezzate per farlo in modo trasparente e lineare. La schizofrenia attuale oscilla tra i “bandi” ed i contributi a pioggia, la definizione di requisiti formali di accesso inauditi – che impongono alle organizzazioni investimenti a perdere in termini di amministrazione, pianificazione finanziaria, rendicontazione – oppure la relazione bilaterale con i decisori, dove soltanto le organizzazioni più forti, visibili e affermate hanno accesso.
La selezione darwiniana che si sta producendo non sempre premia la qualità, spesso produce improvvisazione, in ogni caso non investe sulla cooperazione, la complementarietà, il sistema.

Lo stock di finanziamenti destinati alla spesa per la cultura non può essere ulteriormente ridotto, ma in ogni caso deve essere ripensata la modalità con cui si investe in cultura. Si può diminuire la quota riservata al finanziamento diretto dei singoli attori culturali, aumentando invece la fornitura di beni e servizi al sistema culturale, in una logica di massimo sfruttamento delle risorse disponibili e di democratizzazione delle risorse stesse.
Questo scenario impone una politica coraggiosa: se da un lato occorre riparare ai danni causati dalle finanziarie di Tremonti, che hanno mortificato la cultura tagliando il FUS, dall'altro diviene imprescindibile un ripensamento delle politiche culturali “tradizionali”.
Non può più bastare il pur necessario investimento nei grandi restauri, nei poli museali, nelle città d'arte. Sarebbe utile che il centrosinistra al governo facesse due passi in avanti: il primo è investire sempre di più sui contenuti culturali (il “software”), evitando dispendiose spese per grandi strutture (l'”hardware”) che rischiano di essere, culturalmente parlando, cattedrali nel deserto. Il secondo passo è l'abbandono della sola logica della valorizzazione dell'esistente, per sposare un'impostazione che premi e incentivi la creazione di nuova cultura. L'Italia potrà veder realizzato un avanzamento culturale e civile se i giovani creativi troveranno adeguato sostegno nelle politiche statali e locali.

Dal governo si dovrebbe auspicare anche l’assunzione di un ruolo forte di indirizzo e coordinamento degli enti locali, che in materia di cultura seguono politiche raramente strategiche e molto spesso scoordinate, poco trasparenti, penalizzanti per chi si affaccia nel mondo dell'arte e della creatività.
In una società della conoscenza, anche i prodotti culturali rischiano di seguire le stesse logiche di mercato di altre produzioni materiali. Un ulteriore sforzo che il governo dovrebbe effettuare riguarda l’individuazione di politiche che aiutino l’accesso alla cultura a tutti quei soggetti che, per difficoltà economiche o di altra natura, non dispongono autonomamente degli strumenti necessari per non venire esclusi dal dibattito culturale e da un elemento di crescita fondamentale per la società e gli individui.

Chi volesse davvero proporre una “nuova politica” non può esimersi dall'affrontare il nodo delle politiche culturali e dello stato dell'associazionismo culturale italiano: un associazionismo quasi mai capace di autosostenersi e quindi sempre alla ricerca di fondi pubblici, delegando di fatto al Pubblico le scelte in materia. Senza un'inversione di tendenza rischiamo di trovarci immersi in un paradosso: mentre lo Stato diminuisce gli investimenti in cultura, gli attori perdono indipendenza ed autonomia, basilari per lo sviluppo di una libera produzione culturale.

Alle centinaia di progetti didattici ed educativi presentati dalle associazioni culturali, il centrosinistra al governo nel Paese e nella maggioranza delle Regioni deve rispondere con un potenziamento dell'educazione alla cultura, che passa soprattutto attraverso la valorizzazione di alcune materie scolastiche (educazione artistica, educazione musicale) come strumento di apprendimento più che come tema a sé stante e la capacità di portare la cultura “alta” in luoghi meno formali e elitari.

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