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venerdì 9 novembre 2007

Quando le multinazionali strumentalizzano le rivendicazioni dei diritti: L'era della pubblicità,

“Di mattina mi sveglio, salto sotto la doccia, guardo il mio simbolo, e questo mi dà la carica per tutta la giornata. E’ per ricordarmi tutti i giorni quello che ho da fare: Just do it” (Carmine Colletion, sulla decisione di farsi tatuare lo Swoosh della Nike sull’ombelico, dicembre 1997)

(Zacinto mia) A partire dall’inizio degli anni Novanta si è creata una linea di demarcazione tra gli umili venditori a prezzi bassi e i costruttori di marchi ad alta componente concettuale. Dalla vittoria dei costruttori di marchi è nata una nuova convinzione: i prodotti che si svilupperanno in futuro saranno quelli presentati non come “merci”, ma come concetti. Il marchio come esperienza, come stile di vita. Ecco la quintessenza del branding della Nike. Identificandosi con gli atleti e con lo sport inteso nella sua essenza, la Nike ha smesso di vestire lo sport per iniziare a praticarlo. E, una volta entrata nel gioco insieme ai suoi atleti, la Nike ha potuto contare su giovani tifosi sfegatati, che ne hanno fatto la loro ragione di vita, invece che su semplici clienti. Il risultato tangibile delle loro azioni è un esercito di cloni adolescenti che marciano “in divisa” per le strade del centro commerciale globale. Pur avendo adottato un’immagine multietnica, la globalizzazione indotta dal mercato non auspica la diversità ma il suo contrario. I suoi nemici sono gli usi e i costumi nazionali, i marchi locali e i giusti distintivi di specifiche aree geografiche. La scena è ormai dominata da gruppi di interesse sempre più ristretti, che invadono ogni campo della nostra vita pur di farsi pubblicità ed incrementare i loro profitti.

Quando un marchio sponsorizza un evento culturale, si arroga il diritto di spingere la cultura ospite in secondo piano per rendere protagonista il marchio. Non si tratta di sponsorizzare la cultura, ma di essere la cultura. E perché no? Se i marchi non sono prodotti, ma idee, atteggiamenti, valori ed esperienze, perché non possono essere anche cultura? La stessa cosa accade nel campo dell’editoria e del giornalismo: le aziende non si limitano a chiedere agli editori di diventare loro agenzie pubblicitarie di fatto, promuovendo i prodotti in articoli e servizi fotografici; vorrebbero addirittura che lavorassero per loro aiutandoli ad ideare le pubblicità da inserire nelle loro riviste.

Molte aziende hanno chiesto alle scuole statunitensi, private di fondi pubblici, di trasmettere nelle loro aule alcuni minuti al giorno delle loro pubblicità. Non c’è alcuna possibilità di oscurare le allegre tiritere o di regolare il volume delle trasmissioni; gli studenti sono obbligati ad assistervi, in cambio le scuole posso utilizzare le apparecchiature audiovisive e ricevere dei computer gratis.

Ciò è accaduto anche nelle università, dove il corpo accademico ha supinamente accettato la pubblicità di farmaci in evidente contrasto con i risultati delle ricerche condotte nelle stesse università (la University of California pubblicizzò il farmaco Synthroid prodotto dalla Boots nonostante uno studio condotto dalla professoressa Dong dimostrò che costava molto di più di un farmaco tradizionale e produceva gli stessi risultati sugli ammalati), calpestando in tal modo i principi della libertà di ricerca e di parola. Tale critica dovrebbe essere estesa anche agli attivisti del movimento studentesco, assente dal peraltro misero dibattito sulla conquista degli atenei da parte delle aziende.

Le multinazionali dei marchi hanno strumentalizzato la rivendicazione dei diritti da parte di categorie discriminate come gli omosessuali e gli immigrati per ottenere maggiori profitti (Diesel mostrava l’immagine di due marinai che si baciano, Virgin Cola presentava un matrimonio gay, Gap riempiva le sue pubblicità di arcobaleni razziali rappresentati da modelli-bambini magri e sparuti). La politica della diversa identità si è fatta spesso assorbire dalla grande industria del branding, finendo per alimentarla. Il fatto che concetti come la diversità sessuale e razziale venissero elevati a nuove superstar della pubblicità e della cultura popolare creava comprensibilmente una crisi di identità dell’identità. Alcuni, che avevano lottato per l’affermazione della propria identità, iniziarono addirittura a rimpiangere i vecchi tempi in cui erano oppressi, ma almeno non vedevano i simboli del loro radicalismo in vendita nei grandi magazzini.

USATE PRODOTTI DI MARCHIO? QUANTO PENSATE CHE QUESTO INFLUENZI LA NOSTRA CULTURA E IL NOSTRO MODO DI VIVERE?

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