Per il cardinale Camillo Ruini non ci sono dubbi: la Chiesa viene contestata perché, dopo una fase in cui sembrava battere in ritirata, adesso mostra segnali di ripresa grazie a una maggiore vitalità del cristianesimo.
(Aldo Cazullo - Il Corriere della Sera) Vicario di due Papi, dal '91 al marzo scorso capo dei vescovi italiani, il cardinale Camillo Ruini ha sul tavolo i due libri appena usciti da Piemme che riassumono la sua vicenda:
Chiesa contestata e Chiesa del nostro tempo (domani la presentazione a Milano alla Cattolica, con Giuliano Ferrara, Ernesto Galli della Loggia e il cardinale Angelo Scola). È la prima intervista da quando ha lasciato la presidenza della Cei.
Sono giorni di riflessioni e di bilanci, che il cardinale prepara tra le carte del suo studio, dove neppure la bomba del '93 è riuscita a seminare il disordine.
«Esplose proprio qui sotto. Io ero in Francia, rientrai subito, arrivai in Laterano mentre ne usciva il Papa. I danni erano seri, ma nello studio tutto era rimasto intatto».
I suoi primi anni alla guida della Conferenza episcopale videro il crollo della Dc. Come li ricorda?
«Tutto accadde in fretta. Nei cinque anni passati alla Cei come segretario, tra l'86 e il gennaio del '91, non intravidi gli sviluppi successivi. Ma già a settembre era cominciato il travaglio, accelerato dalle elezioni del '92, che in breve avrebbe portato alla fine dell'unità politica dei cattolici. Ma anche la nostra risposta fu abbastanza rapida. Nel novembre del '95, al convegno ecclesiastico di Palermo, Giovanni Paolo II approvò la nuova impostazione, il diverso rapporto tra Chiesa e mondo politico: anziché ricercare l'unità perduta, privilegiare i contenuti essenziali, la questione antropolica, sociale, morale».
Quello che appariva un problema si rivelò un'opportunità. Alla Chiesa di Ruini si attribuisce la riconquista quasi gramsciana dell'egemonia cattolica sulla società. E anche, talora, un'ingerenza eccessiva.
«Non abbiamo mai puntato a un'egemonia. Sarebbe stata un'ingenuità. Nel discorso pubblico condotto dai mezzi di comunicazione, in Italia o in qualsiasi altro Paese, la Chiesa non potrebbe trovarsi in posizione egemonica. La Chiesa è una voce in un contesto pluralistico; per quanto cerchi di essere una voce non meno decisa, non meno forte di altre».
Da qui forse l'accusa di ingerenza, di interventismo.
«L'accusa di interventismo è legata all'idea di un confronto tra potere civile e potere ecclesiastico, ognuno con una sua legittimità. Ma viviamo oggi qualcosa di nuovo, che non si può rinchiudere nella dialettica tra Stato e Chiesa. Lo sviluppo scientifico e biotecnologico da una parte, e l'evoluzione del costume dall'altra fanno sì che le questioni etiche, che il pensiero liberale e altre moderne correnti di pensiero riconducevano alla sfera del privato, diventino questioni pubbliche. Ciò ha richiesto alla Chiesa di dare maggior rilievo pubblico alla missione che le è propria, occuparsi dell'ethos; che è inscindibile dalla fede. Non ne rappresenta il centro, il centro della fede è il rapporto con Dio e Gesù; ma il cristianesimo ha a che fare con la vita ».
Il momento più teso è stato il referendum sulla procreazione assistita. Vi è stato rimproverato un atteggiamento politicista: non solo la Chiesa si schierava, ma sceglieva lo strumento dell'astensione.
«Non eravamo di fronte a una questione astratta ma concreta, che riguardava la vita, e richiedeva un intervento efficace. Si trattava di un referendum non proposto e non voluto da noi, per cancellare una legge non certo "cattolica" ma che conteneva aspetti positivi. In passato, nel '74 e nell'81, erano stati proposti referendum da parte dei cattolici, sia pure non da soli. Stavolta il nostro impegno è stato coronato dal successo, per giunta più largo del previsto.
Penso, forse in modo un poco malizioso, che quel che più ha disturbato sia stato proprio questo».
Intende dire che la Chiesa piace ai laici quando perde, come su divorzio e aborto, e disturba quando vince?
«Constato che quando l'impegno non è coronato da successo, quando la Chiesa "perde" come dice lei, tutto fila liscio. Nel caso contrario, la reazione è molto diversa, e riprendono vigore le croniche accuse di interventismo. Ciò che ha specificamente colpito e disturbato è che le nostre proposte abbiano avuto un notevole consenso nell'opinione pubblica».
Esiste in Italia un sentimento anticattolico, una sensibilità ipercritica verso la Chiesa?
«Purtroppo sì. Esiste. È legittimo, perché siamo un Paese libero. Non bisogna maggiorarne l'efficacia; ma non si può negarne l'esistenza. C'è una pubblicistica specifica, non inedita ma sempre più intensa, che si concentra in particolare sul vissuto della Chiesa».
È proprio la coerenza della Chiesa con i suoi insegnamenti a essere in questione. Le si rimprovera di essere tutt'altro che povera.
«Non credo affatto che la Chiesa sia ricca. Potrà esserlo il singolo ecclesiastico, ma non lo è certo la Chiesa come istituzione. Contrariamente a quel che viene proposto, il rapporto tra i mezzi di cui la Chiesa dispone e le opere che riesce a compiere è incredibilmente favorevole. E questo lo si deve al volontariato. La gran parte delle risorse della Chiesa non vengono dallo Stato ma dai fedeli, sia in forma di offerte sia in forma di militanza. Questo la gente lo percepisce; e vedere una campagna in senso contrario, che proietta un'immagine rovesciata e presenta la Chiesa come un'istituzione che prende anziché dare, suscita interrogativi, diffidenze, timori».
Vi si accusa anche di nascondere le violazioni della morale sessuale, in particolare la pedofilia.
«La fragilità umana esiste nella Chiesa come nel mondo intero. Neppure la Chiesa è fuori da un contesto socioculturale in cui la sessualità è concepita ed esaltata come fine a se stessa. Il contraccolpo è inevitabile, pure tra i credenti. Ci sono state, e temo continuino a esserci, realtà molto dolorose, che colpiscono profondamente quanti amano la Chiesa e in particolare coloro che hanno la responsabilità di governarla. Va anche detto che si può e si deve, sempre rispettando la dignità delle persone, essere attenti e vigili. Non è vero che queste realtà vengano coperte. Sia nella mia esperienza diretta, sia nell'esperienza di tanti altri, la vigilanza c'è sempre stata; anche se è difficile, poiché chi si rende responsabile di tali comportamenti tende a nasconderli. Ma la contestazione verso la Chiesa non si muove solo sul versante del vissuto».
A cosa si riferisce?
«La contestazione attacca il centro della fede, il suo cuore. La persona di Gesù Cristo, la sua credibilità storica, il farsi carne del Verbo di Dio. Del resto, una cultura in cui il dolore non ha senso, la sofferenza viene negata, la morte emarginata, non può comprendere il cristianesimo. Che resta pur sempre la religione della croce».
Questa contestazione c'è sempre stata, non crede?
«Certo. Ma oggi la sua violenza polemica è in crescita. E penso sia collegata all'impressione, fondata o infondata che sia, di una maggiore vitalità del cristianesimo».
Fondata, o infondata?
«Quest'estate ho letto un libro di fine anni ‘60, che raccoglie una serie di conferenze radiofoniche nella Germania dell'epoca, con l'intervento di vari credenti — teologi, filosofi, psicologi — e di un intellettuale ateo. Che diceva più o meno questo: "Mi trovo in difficoltà, perché sono abituato a discutere con credenti ben decisi ad affermare che Dio esiste; ma qui mi pare che Dio sparisca dall'orizzonte, che il cristianesimo sia solo un modo di intendere la vita; a queste condizioni, non ho più nulla da obiettare". Parole dal tono involontariamente canzonatorio. Ma anch'io, leggendo quel libro, ho pensato che allora ci fosse la paura di mettere la fede cristiana al centro, con un atteggiamento tanto guardingo da configurare una specie di ritirata. Oggi non è più così. E questo dà nuovo vigore a certe polemiche classiche, che si riaccendono ora che Benedetto XVI sostiene la plausibilità razionale della fede, e dopo che Giovanni Paolo II ha impresso la grande svolta con il suo grido: "Non abbiate paura". Non era uno slogan, ma l'indirizzo di un pontificato. Ricordo che fu accolto con perplessità anche dentro la Chiesa: pareva un motto velleitario. Invece una partita che pareva conclusa, con esito a noi sfavorevole, ora è riaperta. Non tutto il clero l'ha colto; il popolo, forse di più. Mi è capitato di ritrovare un gruppo di miei coetanei, non tutti cattolici praticanti, e di essere da loro non soltanto incoraggiato ma spronato. Quando un'identità forte viene colpita allo scopo di distruggerla, essa reagisce, eccome ».
Alcuni intellettuali, che uno di loro ha definito autoironicamente «atei devoti», guardano alla Chiesa come al caposaldo dei valori che definiscono l'identità occidentale. Come valuta questo fenomeno?
«Nella Chiesa si è discusso molto sui non credenti, o non pienamente credenti, che vedono con favore la sua presenza in campo culturale e civile. Dalla Chiesa sono venute risposte varie. Io credo che a Verona Benedetto XVI abbia dato un'indicazione precisa, in termini quanto mai positivi, favorevoli, disponibili. Certo, è impossibile ridurre il cristianesimo a un'eredità culturale; ma è vero che il cristianesimo ha sempre avuto la propensione a farsi generatore di cultura. In una situazione come quella di oggi, in cui vengono messi in discussione i fondamentali antropologici, è più che mai importante la convergenza tra tutti coloro che i fondamentali difendono e valorizzano».
Questo fa sì che la Chiesa sia vista come forza dichiaratamente conservatrice. Al punto da chiedersi se un cattolico possa ancora votare a sinistra.
«Ma queste preoccupazioni per i fondamentali non sono limitate ad alcuni settori dell'arco culturale e politico. Sono condivise da molte parti. Non credo all'equazione tra difesa dei valori e conservatorismo, almeno non nell'accezione negativa del termine, come freno allo sviluppo; perché esiste anche un'accezione positiva. È cosa buona conservare i fondamentali, appunto».
Qual è l'attitudine verso l'Italia dei due Papi di cui lei è stato vicario?
«C'è una differenza, non solo di stile: Benedetto XVI viveva già in Italia da oltre vent'anni; Giovanni Paolo II era sconosciuto a molti, me compreso. Ma c'è una grande somiglianza: entrambi partecipano della profonda convinzione che l'Italia e la Chiesa italiana abbiano un ruolo centrale nel contesto europeo e mondiale. Io stesso, nei due decenni trascorsi nel Consiglio delle Conferenze episcopali d'Europa, ho notato che dall'estero si guarda all'Italia come a un'esperienza che ha qualcosa da dire anche a loro».
La Chiesa italiana è un modello per gli altri episcopati?
«La situazione reale è rovesciata rispetto a quella talora raffigurata in Italia: non c'è qui da noi una Chiesa di retroguardia rispetto ad altri Paesi più illuminati, più aperti al futuro; è vero semmai il contrario, sono gli altri a rivolgersi a noi con grande interesse».
Qual è la sua opinione su Padre Pio?
«Posso raccontarle qualcosa di personale. Mi sono imbattuto in lui in modo involontario, ma ripetuto. Mio padre era un medico ospedaliero, che fondamentalmente credeva, ma escludeva i miracoli. Una notte di oltre cinquant'anni fa — io ero già seminarista a Roma —, assistette alla guarigione subitanea di un ammalato che giudicava terminale, cui era apparso in sogno il frate. Mio padre fu molto traumatizzato da quell'esperienza. E conosco due suore che ebbero da lui un segno tangibile, una fotografia, che le lasciò attonite. Né mio padre né le suore ne hanno mai parlato, questi due fatti sono rimasti sconosciuti fino a oggi, e chissà quanti altri testimoniano la dimensione umanamente inspiegabile di Padre Pio, che buona parte della cultura contemporanea vorrebbe censurare come magica e non autentica».
Posso farle una domanda sulla sua successione?
«Quella lasciamola al Santo Padre...».
...Intendevo la successione alla guida della Cei. Il cardinal Bagnasco ha ricevuto minacce.
«Il mio successore sta facendo un ottimo lavoro. Ci sono stati segnali preoccupanti, che però non vanno sopravvalutati. In un clima polemico, uno sprovveduto può essere tentato da un gesto scorretto. Ma la possibilità è la stessa di finire travolti da un'auto per strada... ».
Lei è stato il primo presidente della Cei a diventare una figura mediatica, oggetto di entusiasmi e invettive. Questo l'ha infastidita?
«No. Non mi ha galvanizzato, non mi ha depresso; non gli ho mai dato molta importanza. È stato un processo graduale, iniziato tardi: sono arrivato a Roma a 55 anni... Per natura tendo a relativizzare. Del resto, la decisione implica l'accettazione del rischio. Anche se non ho purtroppo la meravigliosa capacità, che ho visto in Giovanni Paolo II, di affidarsi totalmente al Signore».
Quale le sembra la temperatura morale dell'Italia? Si è approdati all'alternanza politica, ma la sfiducia è tale che ogni volta il governo viene congedato...
«È difficile trovare una sintesi della temperatura morale di un Paese. Ci sono segni positivi e altri negativi. Non nego che la situazione sia difficile, e che la temperatura possa apparire troppo fredda, segno di scarso entusiasmo, o troppo calda, segno di una malattia. L'Italia ha grandi potenzialità e una sostanziale robustezza; ma varie questioni non trovano uno sbocco convincente e duraturo nel tempo. È necessario che la dirigenza politica, come quella economica, sindacale, giornalistica, ecclesiale, guardino di più al medio e al lungo periodo, e non solo all'immediato. È indispensabile affrontare i temi epocali, dalla questione demografica indicata nel 2004 anche da Ciampi all'emergenza educativa di cui parla Benedetto XVI. Non si può guidare un aese guardando solo all'immediato. Chi metterà questi grandi problemi al centro dell'agenda politica, farà il bene dell'Italia, e sarà capito dalla gente».
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