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martedì 23 ottobre 2007

La vera storia di Rendition e la delusione delle “critiche democratiche”.

(Christian Rocca) New York. Alla Festa del Cinema di Roma è stato presentato il film “Rendition”, la cui storia è centrata sulla procedura clandestina di cattura e deportazione di presunti terroristi, praticata dalla Cia in collaborazione con i servizi segreti dei paesi alleati. Il sistema delle “extraordinary rendition” non è perfetto, ma nell’era della guerra al terrorismo affronta una serie di problemi di tipo pratico, politico e giuridico. Se il Pakistan dovesse catturare Osama bin Laden, per esempio, avrebbe tutto l’interesse a consegnarlo clandestinamente agli americani per evitare le ripercussioni interne che la sua detenzione e il suo eventuale processo causerebbero in patria. Al contrario, se i servizi occidentali arrestano uno straniero sospettato di terrorismo, ma non hanno ancora le prove richieste dai propri sistemi giuridici, preferiscono consegnarlo ai paesi mediorientali alleati dove il catturato è già formalmente accusato di qualche reato.

La “rendition” in Italia è nota per il caso di Abu Omar e per l’indagine della magistratura di Milano sull’imam radicale egiziano che i servizi italiani e americani hanno catturato e poi spedito in Egitto. Ed è per questo che i giornali italiani di ieri sono andati in sollucchero per il film. Uno su tutti, il titolo dell’Unità: “Festa di Roma, i sequestri della Cia di Bush”.
“Rendition”, in realtà, non è un atto d’accusa alla Michael Moore, è molto cauto, pieno di dubbi e attento a spiegare le ragioni e l’utilità di questo strumento antiterrorismo, tanto che le due gran dame del giornalismo cinematografaro italiano, Natalia Aspesi e Lietta Tornabuoni, su Repubblica e Stampa, sono rimaste parecchio deluse: “Ci si aspetta contenti un bel film arditamente democratico che denunci ancora una volta già note pericolose sfrontatezze dell’Amministrazione Bush, e alla fine si resta con un palmo di naso” (Aspesi); “non arriva a provocare indignazione né scandalo né rivolta democratica ma rimane lì inerte” (Tornabuoni).
Eppure, malgrado la delusione delle nostre critiche democratiche, il film colpisce perché diffonde una serie di falsi miti sulla “rendition”. Lo ha spiegato per bene, domenica mattina, il Washington Post, cioè il bastione del giornalismo liberal americano e certo non bushiano, con un articolo di Daniel Benjamin, ex capo delle politiche antiterrorismo al Consiglio di Sicurezza nazionale dell’Amministrazione Clinton. Il primo mito è alla base stessa del film. L’episodio che dà inizio alla vicenda cinematografica nella realtà non potrebbe accadere, almeno legalmente, e non è mai accaduto. Il protagonista del film, sposato con un’americana, ma nato in Egitto, viene catturato dentro un aeroporto americano e trasferito in un carcere nord africano per essere interrogato e torturato. La legge dice che una “U.S. person”, ovvero un cittadino americano o un residente negli Stati Uniti, non può essere rimossa dal paese attraverso la rendition. Non ci sono mai stati casi simili a quelli raccontati nel film, mai nessun americano è stato rapito negli Stati Uniti dai servizi per essere consegnato a un paese straniero. Benjamin ricorda soltanto il caso di un canadese di origini siriane consegnato alla Siria, trattenuto all’aeroporto JFK di New York.
C’è un altro mito mica male. Si pensa che lo strumento della rendition sia stato escogitato dai cattivoni Bush e Cheney, magari in combutta con i perfidi neoconservatori. Non è così. E il film lo fa capire, con grave disappunto delle critiche democratiche. La prima operazione di questo tipo è del 1987, ai tempi di Ronald Reagan, mentre nel 1990 ne è stata autorizzata un’altra da Bush senior. Ma il dato più interessante è un altro. L’ex direttore della Cia, George Tenet, ha svelato che prima dell’11 settembre la Casa Bianca ha autorizzato 70 volte la rendition, quasi tutte durante gli anni di Bill Clinton. Negli anni di Bush, sono state poco di più, cento, ma in uno scenario internazionale completamente mutato.
Le rendition, quindi, sono principalmente uno strumento messo in pratica a partire dal 1995 dalla Casa Bianca di Clinton per sabotare le attività terroristiche all’estero. Bush ha esteso le rendition anche alle attività di raccolta informazioni e per interrogare singoli individui, vista la più stretta urgenza post 11 settembre di evitare un altro attacco. Gli abusi e i rischi sono evidenti. L’esperto della Brookings, Daniel Byman, spiega però che la rendition offre una risposta al dilemma politico se sia meglio affrontare la minaccia terroristica con una guerra o con gli strumenti giudiziari. Bill Clinton aveva scelto la seconda via, George W. Bush entrambe. Il problema è che l’intelligence e i tribunali operano con regole diverse, creando una specie di zona grigia tra la sicurezza nazionale e il sistema giuridico. Capita spesso, infatti, che i servizi credano di avere prove sufficienti per detenere qualcuno implicato in attività terroristiche, ma anche che queste prove non siano sufficienti ai procuratori per avviare un processo. La rendition è lo strumento che consente ai governi di fare qualcosa, invece di niente.

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