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domenica 28 ottobre 2007

Gerard Reve, una vita tra il "violetto" e la "morte".

(Cadavrexquis blog) Moltissimo tempo fa avevo scritto qualcosa a proposito di Gerard Reve, cioè colui che per molto tempo è stato il mio "scrittore olandese" preferito e che ho sempre amato molto per le sue ossessioni, oltre che per la qualità della sua scrittura. Se torno a parlarne è perché ho concluso da pochi giorni la lettura del suo penultimo lavoro, Het boek van violet en dood (Il libro del violetto e della morte). Dovrei dire, in realtà, la "rilettura", perché questo è uno dei libri di Reve che ho comperato immediatamente dopo la sua pubblicazione - nel 1996, in occasione di un breve viaggio ad Amsterdam - e che, ai tempi, ho divorato subito. Erano anni che mi ripromettevo di riprenderlo in mano per vedere che effetto mi avrebbe fatto adesso e per capire, soprattutto, se l'avrei preferito a quello che mi pare tutt'ora il suo romanzo più compatto e più compiuto - anche nella sua maniacalità e nel senso di claustrofobia che suscita nel lettore -, ovvero Bezorgde ouders (Genitori preoccupati), del 1988.

In un certo senso, da un punto di vista strutturale, questo romanzo è l'opposto del precedente - almeno all'apparenza -, perché se l'altro sembrava un anello o un cerchio che voleva rinchiudere tutto, questo è costruito intorno a una serie di divagazioni che partono da e ritornano a un unico evento, con il quale tuttavia non hanno alcun rapporto concreto. L'evento, insomma, è reale, ma tutto il resto si svolge unicamente nella mente dello scrittore: nella sua fantasia ma, soprattutto, nella sua memoria. Ed è questo, forse, l'elemento inedito di questo romanzo sui generis che, più di tutti gli altri, assume un accento autobiografico molto marcato e in cui la narrazione acquista spesso toni più distesi e meno nervosi rispetto a, per l'appunto, Bezorgde Ouders. Non mancano, ovviamente, le solite ossessioni di Gerard Reve e, soprattutto, quel misto di religiosità e sadomasochismo omosessuale che lo contraddistinguono da sempre*, ma non di rado tutto questo viene temperato da una sottile autoironia che si risolve in continue strizzate d'occhio, allusioni e rimproveri nei confronti di un ipotetico lettore al quale Reve si rivolge con il pronome di cortesia "U" (Lei) e che chiama "Zeergeleerde vriend" (dottissimo amico). A costui Reve si contrappone in continuazione, sottolineando di non essere un "intellettuale", un termine che sulla sua bocca suona quasi come un insulto. Un intellettuale, infatti, è chi si inventa le cose - mentre lui, Reve, ci tiene a raccontare solo la verità - o chi "trova ovunque un problema anche quando non ne ha".

La trama si riduce a poca cosa: Jean-Luc, il giovane figlio dei vicini di casa di Reve, che al momento della stesura del romanzo abita nel sud della Francia, muore in un incidente stradale. Gerard Reve, che è l'io narrante, si era invaghito di lui e pensava che forse tra di loro poteva nascere qualcosa - naturalmente, come sempre accade nei suoi libri, il desiderio sessuale è molto interiorizzato: più immaginato e pensato che reale -, ma ora la sua morte improvvisa ha spezzato anche questa possibilità. L'unica cosa che può fare - a parte fantasticare di chiedere ai genitori una fotografia del ragazzo e i suoi vestiti che non potrà più indossare - è andare al suo funerale. La tenue linea narrativa è costituita da questo funerale che non comincia mai: l'acquisto dei fiori, il viaggio verso la chiesa, l'attesa davanti al portone chiuso e così via. Da questa banale realtà l'immaginazione dello scrittore fugge in una serie continua di flashback in cui viene evocato il suo passato: la sua infanzia, la giovinezza e la scoperta della sua omosessualità, il rapporto tormentato con il suo "dotto fratellastro" - e il riferimento è allo slavista Karel van het Reve - e con la famiglia di fede "comunista", la sua conversione al cattolicesimo negli anni sessanta e lo scandalo che provocò negli ambienti intellettuali dell'Olanda, tutti più o meno "progressisti" (un termine, questo, che Gerard Reve tinge di forte sarcasmo). Numerosi sono gli aneddoti che punteggiano questo andirivieni nella memoria dell'autore: Reve ricorda il periodo in cui visse in Inghilterra e lavorò come inserviente in un ospedale psichiatrico, il suo stesso ricovero in una clinica di disintossicazione quando era alcolista e, infine, l'epoca della seconda guerra mondiale e dell'occupazione nazista, della quale evoca una spedizione, da studente, nelle isole frisoni per contattare un ragazzo che viveva in clandestinità e collaborava con la resistenza.

Ma che rapporto ha il titolo del libro con il suo contenuto? Da un lato la "morte" è presente in modo molto concreto attraverso il personaggio di Jean-Luc, ma allo stesso tempo fa anche da sfondo a tutto ciò che viene rammentato e narrato dall'autore, che assume così un carattere profondamente malinconico. Il fatto stesso che a morire sia proprio il ragazzo che suscita il desiderio erotico dell'autore stabilisce inoltre un legame inestricabile - oltre che esplicitamente ammesso da Reve - tra eros e thanatos. Questa atmosfera di decadimento di tutte le cose aleggia su Het boek van violet en dood conferendo a tutti i ricordi dell'autore un senso di morte imminente. E' forse questo il significato del colore violetto del titolo, che finisce per simboleggiare la profonda malinconia che attraversa questo testo e che è solo in parte mitigata dall'intenzionalità con cui l'autore vi calca la mano - quasi come se, esagerandola, la esorcizzasse e se ne facesse beffe. Il romanzo, infatti, è costellato da frasi come: "Ma intanto ho avuto una giovinezza infelice. (...) La convinzione di essere un fallito mi ha perseguitato molto a lungo", "Il vero problema è l'abbandono. Essere soli, per lo più, è ancora sopportabile, ma il sapersi abbandonati, mai", "Per la maggior parte della mia vita mi sono sentito posseduto dalla colpa e dal senso di colpa. Ho sempre pensato che tutto fosse colpa mia. Il vantaggio del senso di colpa è che non si cerca mai di dimostrare la propria innocenza, il che può richiedere molto tempo", "Quello che scrivo non è una passeggiata, ma il racconto della vita di un pellegrino errante nel deserto di vetro e cemento che si chiama società", "Non che la vita sia diventata una festa perché prima o poi tutto diventa miseria: la miglior cosa sarebbe non vivere affatto" - ma anche "La solitudine fa vendere bene uno scrittore, quasi altrettanto bene come essere un travestito a Rio de Janeiro".

(* Le due cose non sono disgiunte, in realtà. Il culto "revista" del "mededogenloze jongen" - il bel ragazzo spietato - è una forma di adorazione del mistero dell'amore che si esprime in una sorta di ritualità fatta di punizione e consolazione, quasi come se si dovesse prima infliggere dolore per poterlo poi lenire e, quindi, dimostrare di amare chi soffre. Allo stesso modo, il culto religioso più tradizionale assume in Reve un aspetto squisitamente sensuale e sessuale: amare Dio o - meglio ancora - la Madonna viene inteso dall'autore in modo molto letterale. Naturalmente, un lettore smaliziato non è sempre in grado di capire fino a che punto Reve fa sul serio e la tentazione di sentirsi preso in giro è forte. Reve ne è consapevole, tanto che a un certo punto fa dire al suo immaginario "amico dottissimo": "Su, su, ma la smetta un po' (...) perché di queste Sue cazzate deliranti cominciamo ad averne abbastanza".
Per capire il carattere dell'universo erotico-religioso di Gerard Reve basti leggere questi due brani, tratti proprio da Het boek van violet en dood: "Perché, davanti all'immagine soffusamente illuminata della gloriosa e benedetta Vergine Maria, Madre di Dio, io volevo, con la foto [di Jean-Luc] in una mano e la mia arma d'amore nell'altra, toccarmi a lungo con amore, pregando Lei e guardando la fotografia, a casa, però, e non sulla pubblica via, perché era un atto intimo, o detto altrimenti: un mistero" e "Sì, un ragazzo che non faceva nulla di male ed era molto diligente: picchiare un ragazzo così era la cosa più sublime che ci fosse. Come minimo bisognava punirlo nella zona in cui la schiena cambiava di nome. Dio santo, come si alzava la mia virile verga mentre pensavo alla verga che il suo fratellino o il suo amichetto sarebbe stato costretto a calare sibilante su di lui. Avevo paura che qualcuno la vedesse, sotto i miei vestiti, tale era la potenza del mio sentimento di compassione e tale la ferocia con cui la sua voce innocente trafiggeva il mio giovane cuore mentre urlava pietà. In che mondo vivevamo! Tutta quella guerra: aveva una qualche consistenza? Io ero solo e nessuno mi picchiava, mai: che senso aveva ancora la vita?")

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