Caro Direttore;
Comprendiamo tutti i moti del suo animo dopo l’elezione de “Il Foglio” a giornale prediletto da parte di Paola Binetti, neuropsichiatra e senatrice dalla dubbia deontologia. Tuttavia il paragone che pone in un unico calderone don Gelmini e i suoi peccati, i reati che gli si addebitano, la letteratura di Nabokov, quella di Pasolini e da ultimo la cultura gay, presenti nell’editoriale “Don Gelmini e Pasolini” pubblicato a pagina 3 del suo quotidiano in data 29 dicembre 2007, è parso davvero spropositato e persino offensivo di una memoria giusta, delle conquiste in materia di cultura e diritti civili maturate negli anni, di una minoranza gay certo imperfetta e fracassona ma comunque meritevole di quel rispetto che Montanelli leggeva come sintomo primo della democrazia di un popolo.
E’ singolare come la sua elucubrazione, ripresa da molti intellettuali solitamente omofobi, ma a quanto pare non dal Vaticano che ha invitato coerentemente Gelmini a fare un passo indietro, vada di fatto – per giustificare le presunte porcate sottobanco di un prete già molto discusso per altre vicende – a mettere sullo stesso piano la cultura laica e quella cattolica, il modo di vivere di una comunità civile e secolare con le regole chiare e nettissime della Chiesa Cattolica e ancora, triste consuetudine dell’ultimo periodo a cavallo tra islamismo e cattolicismo, il peccato mischiato al reato.
Non sappiamo in quale mondo viva l’anonimo editorialista de “Il Foglio”, resta il fatto che il pur bel romanzo di Nabokov così come i pasoliniani ragazzi di vita sono stati concepiti e restano, con tutti i tormenti ad essi acclusi, tra le pagine di due opere letterarie.
La vita e l’intelletto di Pasolini sono stati ben altro. Così il suo tormento e la sua coscienza fin troppo chiara del peccato. In questo senso, non so se concorda, ma proprio gli scritti corsari di Pasolini si avvicinano molto di più agli accigliati concetti espressi dal pensatore Joseph Ratzinger, poi papa Benedetto XVI.
Così la cultura gay, colpevole pure di mille vizi e diecimila tic tra cui spesso – e lo dico a ragion veduta – la scarsa democrazia interna, non può essere certo accusata di chissà quale conformismo quando si unisce alla comunità civile nel chiedere un giusto processo contro un sacerdote che, abusando del suo ruolo carismatico in una comunità di recupero per tossicodipendenti, approfitta in maniera più o meno lecita di quegli stessi ragazzi alcuni dei quali, parrebbe, anche minorenne.
Questi si chiamano reati. Poco c’entrano Nabokov, Pasolini, la maledetta modernità dei costumi e delle coscienze e persino la concezione del peccato cui l’editorialista fa cenno.
Al peccato ci penserà, semmai, la Chiesa. E fa onore a don Gelmini, questo sì, la lettera inviata al Papa nella quale si dice pronto a essere ridotto alla condizione laicale per non invischiare la Chiesa nella sua vicenda giudiziaria.
Quest’ultimo passaggio è parso essere, nel guazzabuglio improprio di concetti emersi finora anche nell’editoriale de “Il Foglio, la risposta più appropriata a una vicenda triste ma fin troppo chiara. Di peccati e reati da accertare e distinguere ma tutti strettamente legati alla realtà e non alla letteratura. Lasciando in pace, se possibile, la memoria di scrittori certamente peccatori che, però, non hanno mai aspirato al ruolo di santi o, forse, di santoni.
Daniele Priori
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L'editoriale a cui fa riferimento Daniele Priori e pubblicato il 29 dicembre su "il Foglio".
Don Gelmini e Pasolini
Nabokov ha fatto del suo eroe, che si faceva Lolita, una bambina di tredici anni, un simbolo di liberazione sessuale, estetica e morale per generazioni di occidentali. Pasolini, che si faceva
una quantità di ragazzi di vita, amandoli scrutandoli raccontandoli pagandoli e seducendoli, ha fatto di se stesso il poeta italiano della condizione umana moderna ed è stato riconosciuto
come l’usignolo della chiesa cattolica, un martire dell’amore, come lui voleva. E don Gelmini?
Il castello di accuse trapelato sui giornali, per il tono e le circostanze delle chiamate in causa, per i soggetti che chiamano in causa quel prete, è fragile come un castello di carte. La storia di un ottantenne che molesta i giovani della sua comunità tirando in ballo “nomi di politici” per ricattarli e con trucchi di seduzione da giovane checca (“mi piaci con i capelli corti”) ha lo stesso valore della caccia alle streghe di Rignano Flaminio e di molte altre storie di ordinario esorcismo
di massa (non l’esorcismo buono, quello che dovrebbe essere esercitato con cura presbiteriale e professionale in ogni diocesi, secondo Benedetto XVI). Ma questa è un’opinione, suffragata da parecchi fatti, che attende solo di essere smentita da un giusto processo, in cui a contare non siano solo le parole confuse delle vittime bensì i riscontri, se ci siano, e in cui si tenga nel dovuto conto il fatto che una cosa sono le responsabilità penali addebitate a don Gelmini e un’altra cosa sono le eventuali responsabilità nel malaccorto difendersi dalle accuse con un’azione sospetta
di cover up, di depistaggio delle indagini. Si può non aver nulla da nascondere, ma qualcosa di importante da difendere, quando la propria reputazione sia decisiva per le sorti di un impero della carità al termine di una lunga vita di impegno sociale, comunque lo si giudichi. Siamo nel paese in cui Gaetano Salvemini esortava a riparare all’estero chiunque fosse accusato di aver rubato o stuprato la Madonnina che protegge Milano dalla più alta guglia del suo Duomo.
La faccenda appassionante e inquietante è un’altra. Nasce nel caso fosse accertato per vero, allo stato delle cose un’ipotesi assurda ma un’ipotesi, l’omoerotismo di un vecchio prete, il suo bisogno di dare e ricevere piacere o libero amore, se preferite, a ragazzi ragazzi che gli pullulano intorno in un contesto comunitario in cui si cercano speranza e salvezza per vite perdute. Allora, cari nabokoviani, cari sperimentalisti letterari, cari pasoliniani: vogliamo dare al prete immerso nella “condizione umana” dell’omosessualità (Walter Veltroni), innamorato dei ragazzi al punto di gridare ancora adesso apertamente che non semetterà mai di abbracciarli, bisognoso del loro sesso o della loro affettività (dicono così gli psicologi), la stessa chance laica di essere considerato in modo sfaccettato e complesso, se non la sorte di diventare perfino simbolo poetico del dramma eterno e torbido dell’amore maledetto? Perché mai sui giornali della borghesia intellettuale italiana emerge solo e soltanto la dimensione criminale, che resterebbe parte del dramma in un serio racconto laico, e non anche l’altra, quella dimensione tollerante e sublimata che ha permesso agli stessi giornali di essere nabokoviani e pasoliniani? Come mai considerate elegante e universale lezione letteraria lo stupro di Lolita, come mai considerate profetica e corsara assunzione di responsabilità verso il proprio mondo poetico le marchette notturne di Pasolini, se poi non vi riesce di capire la perdizione di un prete? Siamo sempre allo stesso punto, cari amministratori della coscienza laica divisa, quella coscienza falsa, ideologica, che non dà a ciascuno il suo e non fa giustizia nemmeno sul piano simbolico. Avete cacciato dal vocabolario
la parola “peccato”, non sapete dunque né giudicare né perdonare, né assolvere né condannare, sapete soltanto sublimare il secolo e aggredire il clero, vi esercitate in questo sport banale. Nella prima metà del Novecento si leggeva lo straordinario racconto di Bernanos, il diario di un curato di campagna, e si sapeva di che cosa si parlava quando si parlava di un prete e dei suoi tormenti. Nella seconda metà del Novecento si è letto di fretta Lolita o Ragazzi di vita e si è pensato che, tolto il peccato, ferrovecchio in mano alla chiesa e ai suoi confessionali, sarebbe rimasto il diritto
eguale, l’unicuique suum, e invece siete approdati a una giustizia morale divisa, dalla pena di morte in moratoria ma con l’aborto di massa in efficiente funzione, dall’omoerotismo dei preti esorcizzato senza sapienza ai fasti conformisti della cultura gay.
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