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martedì 27 novembre 2007

Tinto Brass: "Le natiche non sanno mentire".

La provocazione del regista: "Più etici i sederi delle facce".

(Giancarlo Dotto - La Stampa) Conviene frequentarlo Giovanni Brass detto Tinto, veneziano di sangue russo. Dove c'è lui le donne vanno e vengono, belle, adoranti e complici. Abbottonato nel pastrano nero e la cravatta fucsia, la voluttà fatta uomo addenta l'enorme wurstel di tabacco, lo mastica e poi lo accende, celebrando ogni volta a cerchi di fumo la pace con se stesso. Erotizza qualunque cosa, Tinto, i sigari, le donne, i ricordi, le parole. A 74 anni, un epicureo irrecuperabile. Molto bella, molto complice, discretamente adorante al suo fianco Caterina Varzi, psicoanalista junghiana. Stanno lavorando insieme sulla sceneggiatura di «Vertigini», il suo prossimo film. Reduci da Segovia, in partenza per Torino. «Mi ha invitato Nanni Moretti. Cercava una chicca per il suo Festival e ha scelto un mio vecchio film, «Chi lavora è perduto».

Lo stesso Moretti il cui cinema lei ha definito un lassativo?
«Quando mi ha telefonato gli ho chiesto: sei Moretti o Fiorello?».

Resta il concetto di lassativo?
«Il “Caimano” non mi è dispiaciuto, merito anche di quello strepitoso attore che è Silvio Orlando, uno credibile qualsiasi cosa faccia».

Un segnale forte. L'élite del cinema italiano riscopre Tinto Brass.
«Solo in Italia mi snobbano come autore. In Francia i critici mi amano da sempre. Ma anche in Spagna. Al festival di Segovia hanno proiettato il mio “Monamour” in una chiesa sconsacrata a mezzanotte. Ho esaltato Zapatero nelle interviste. Un uomo che mi piace. Ha il sorriso sornione degli umani sessualmente soddisfatti. Mi ricorda la Gioconda».

L'analogo italiano?
«Antonio Di Pietro lo immaginavo nella parte di Mellors, un ruspante stallone, per un mio rifacimento di Lady Chatterley. Mi piace molto la Melandri. La vedrei bene sul set insieme alla Mussolini. Siamo stati a un passo dal lavorare insieme con Alessandra, in “Paprika”».

Si è dato anche alla letteratura.
«Sto promozionando il mio ultimo libro su un tema a me caro».

Tiro a indovinare. Ha a che fare con il culo?
«Si chiama “L'elogio del culo”. Si vende come il pane. Sulle aste di internet è arrivato a 15 euro dai 3 e 90 di partenza. Tullio Pironti, l'editore, voleva un autore colto, trasgressivo e popolare, il mio ritratto».

Le è venuto facile scriverlo.
«Si è scritto da solo. E' una vita che perlustro gli emisferi gemellari».

Non ha bisogno di alibi culturali lei per esaltare gli emisferi gemellari.
«Mi sono proposto come culologo alla televisione, invece della mano avrei letto i culi. Hanno rifiutato. Eppure stiamo parlando della sintesi conica del linguaggio del desiderio. I bei culi sono ipnotici. Una volta ne ho seguito uno da Milano fino a Mosca».

Gli italiani sono più per le tette.
«Sono gli americani i maniaci delle tette. Lo era Federico Fellini, certamente. Io sono più un Ass Man. D'altronde era già tutto scritto nel mio cognome».

Lei certo disapprova questo malcostume per cui, nel set come nella vita, la faccia ha più dignità del culo.
«Sul piano etico il culo è più onesto della faccia, non inganna, non è maschera ipocrita. Il mio libro comincia con un sillogismo aristotelico. Tesi, il culo è lo specchio dell'anima, antitesi ognuno è il culo che ha, sintesi, mostrami il culo e ti dirò chi sei».

Sillogismo che pratica nei suoi provini?
«Poverette. Si presentano con i curriculum. Nei culi c'è il destino delle persone. Il culo della Claudia Koll aveva, per esempio, delle implicazioni mistiche. Si capiva dove sarebbe andata a parare. C'era un'ombra di malinconia».

Nel viso?
«Ma no, nel culo. C'è anche la tua cartella clinica stampata nel culo, basta saperlo leggere».

Per restare in tema, un quiz: «La gente dice cuore e vorrebbe dire culo», chi l'ha detto: Edmondo De Amicis, Carmelo Bene, Riccardo Schicchi o Arrigo Sacchi?
«Schicchi?».

No, Bene. Le preferisce vergognose o disinibite le sue attrici?
«Vergognose, senza dubbio. Quelle dell'est sono più disponibili, disinibite, ma fanno ginnastica più che sesso. Il pudore delle italiane diventa interessante quando lo si infrange».

L'attrice più pudica.
«Anna Galiena. Fu lei a proporsi per “Senso '45”, mia fedelissima versione dal romanzo di Boito. Molto spregiudicata nei provini, poi sul set le venivano i crampi. Troppo cerebrale o forse troppo borghese».

Meglio con Stefania Sandrelli?
«Donna come poche, generosa nel darsi e nel mostrasi. Quando uscì “La chiave”, ai critici che la biasimavano rispose “Sono orgogliosa di saper recitare anche con il culo”».

Generosa anche Serena Grandi.
«E' la Padania. La dea Tellus. Solare Nel suo culo c'era scritto disordine e carnalità».

Vergognosa la Caprioglio?
«No, per carità. Con lei nel set era un'erezione e dunque una festa permanente. Era stata l'amante di Kinski. Tra noi veneziani ci si capiva con gli sguardi».

Francesca Dellera piaceva anche a Marco Ferreri.
«Brava ma molto pigra. Più che un'attrice, una cocotte, e si badi che io adoro le cocotte. Sa di avere una sua grazia, questo le basta. Che fa ora? Non so. La immagino fidanzata con qualche signore facoltoso».

Oggi vanno le veline, meglio se anoressiche.
«Non cerco le barbie, odio le anoressiche. Detesto quelle che si depilano. Una mostruosità. Ricorda la foto vecchia della Loren con il ciuffetto di peli sotto il braccio? Una delizia».

Sofia e Tinto, un incontro mancato?
«Le proposi la parte da protagonista nel mio primo film erotico, “La chiave”. Carlo Ponti non la prese bene: “Ma cos'hai lo sperma nel cervello?”. Coinvolsi Silvana Mangano in un mio progetto sulla vicenda di un masturbatore compulsivo. Mi voleva molto bene Silvana. Mi mise in contatto con Rudolf Nureyev. Uno iperdotato, l'ideale per quella parte. Era tentato ma poi prevalse il timore di essere identificato con quel personaggio».

Carla Cipriani, la compagna di una vita. Moglie, complice, amante. Quanto le manca?
«La chiamavano Tinta. Era la mia anima gemella, il motore del mio lavoro, il parafulmine della mia esistenza, mi proteggeva da tanti casini, era il crogiolo delle mie certezze, il cancellino dei miei dubbi, il fiammifero della mia lussuria. Per 50 anni mi sono addormentato felice, con le mani nelle sue chiappe. Sogni d'oro e potenti erezioni. Mai avuto bisogno di Viagra con lei. Un culo da vertigine».

«Vertigini» è il titolo del suo prossimo film.
«Un omaggio a Hitchcock ambientato a Venezia. Alvise è un anziano professore che s'innamora perdutamente della moglie del figlio, uno stronzetto. La lussuria è il suo unico sollievo. Lei lo chiama nonno, lo provoca, lo tenta, forse anche lo ama. Lui si costruisce attraverso la passione una metarealtà. Saranno i giapponesi a produrlo. Dalle loro parti sono molto popolare».

La protagonista?
«Mi sa che dovrò cercarla all'estero. Le italiane leggono il copione e si spaventano. Non c'è più Tinta e ora sarà Caterina a sceglierla».

La lussuria negli anni della peste.
«Il preservativo non mi piace, ma se è la donna che te lo infila diventa un bel preliminare. Frequentavo i club scambisti in Italia, ma sul più bello venivano a chiedermi l'autografo. Meglio a Parigi, anche se lì proteggersi è d'obbligo».

Gli emisferi gemellari mai perlustrati.
«Sharon Stone. Più invecchia più diventa bella. Proverò in futuro a coinvolgerla per un mio film che esalterà la donna in menopausa. Femmina all'ennesima potenza senza le trappole e l'ambiguità della fecondazione».

Il suo è un mondo perfetto, oltre che sferico.
«Un mondo sereno. Ora m'interessa l'erotismo delle donne. Il femminile è la dirompente novità, anche in politica, purché non si camuffino come Condoleezza Rice».

A chi l'accusa di essere monomaniaco.
«Sono prima di tutto un cineasta molto attento all'estetica. Per il resto, tutti pensano a cambiare il mondo, a me basta renderlo più abitabile. Guardi Cuba, la mistica rivoluzionaria ha ceduto alla mistica del sesso».

Le femministe hanno una passione per lei.
«Una volta a Napoli, in una manifestazione a favore della riapertura dei bordelli, Elvira Banotti mi rovesciò in testa un cesto di ghiande».

Pesante allusione.
«E' il cibo dei maiali... Mi piacciono i maiali, sanno fare bene l'amore».
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VENERDI' AL FESTIVAL DI TORINO
«La censura non solo è bigotta, è anche stupida»
Tinto Brass, venerdì, sarà al Torino Film Festival, per incontrare e raccontarsi con Nanni Moretti. Parleranno insieme del suo primo film, «Chi lavora è perduto» girato nel 1960, con Pascale Audret, Tino Buazzelli, Piero Vida, Sady Rebbot, Franco Arcalli, Nando Angelini, Gino Cavalieri. Il film è la storia di un trentenne che gira per le strade assolate di Venezia in un giorno d’estate, abbandonandosi ai ricordi e immaginandosi altre possibili esistenze. «Ho avuto problemi con la censura fin da quel film - dice Brass -. Mi sono imbattuto in un magistrato severo che trovava il film contrario alla Costituzione, alla religione, alla morale, alla famiglia e non ricordo più a cos’altro. Ha visionato il film e poi mi ha detto: “Lo rifaccia, Brass, lo rifaccia”. L’ho lasciato uguale e l’ho ripresentato con un altro titolo. E il film è passato. Perché la censura non solo è bigotta, ma anche stupida». Dai francesi, Tinto Brass è stato classificato il «più erotomane dei cineasti, il più cineasta degli erotomani». E lui ne va orgoglioso: «Hanno definito i miei film eretici non erotici. Detesto quando l'eros è combinato a thanatos, vedi il cinema di Kubrick. Macabro, colpevolizzante. Non è più proibito mangiare la mela, la mela è marcia. E quando sento parlare di sublimazione, farei come Goebbels, metterei la mano alla pistola».

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