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venerdì 30 novembre 2007

L'Avvenire attacca le leggi antiomofobia.

L'ideologia del "genere". Quel grimaldello dietro una causa buona.

(Marco Tarquinio - L'Avvenire) Non sempre ai titoli corrispondono testi coerenti e conseguenti. Ma qualche volta accade. E non è sempre u­na buona notizia. La riprova la offre – nuovo caso in questa legislatura – il la­vorìo parlamentare intorno a una pro­posta di legge dall’intitolazione sugge­stiva e, per certi versi, emozionalmente coinvolgente eppure in grado di far scat­tare più di un serio allarme. Ci riferiamo al testo unificato elaborato in Commis­sione Giustizia della Camera per stabili­re «Misure contro gli atti persecutori e la discriminazione fondata sull’orienta­mento sessuale o sull’identità di gene­re ». Un testo sbrigativamente ribattez­zato «legge anti-omofobia» (ma non so­lo e soltanto di questo si tratta) e fatto passare per un «adeguamento» a «obbli­gatori » standard normativi europei (che in realtà obbligatori non sono affatto). Un progetto, lo diciamo subito a scanso di equivoci, che non inquieta di certo per l’obiettivo che suggerisce –l’impegno contro persecuzioni e discriminazioni per motivi di ordine sessuale –, ma per le categorie giuridiche che punta a intro­durre nel nostro ordinamento e per il mo­do in cui persegue questo fine dichiara­to, appunto, sin dal titolo.

Il primo allarme viene fatto suonare dal­l’incipit del titolo della bozza – «Misure contro gli atti persecutori» – e cioè dal­l’importazione nel codice penale italia­no del cosiddetto reato di molestia gra­ve e insistente ( stalking). Un’operazione purtroppo condotta all’insegna di un’in­determinatezza che disorienta e sgo­menta. La norma, se davvero venisse va­rata, punirebbe infatti «chiunque reite­ratamente, con qualunque mezzo, mi­naccia o molesta taluno in modo tale da infliggergli un grave disagio psichico» o arriva a «pregiudicare in maniera rile­vante il suo modo di vivere». Come s’in­tuisce facilmente, le possibili applica­zioni di una simile vaghissima norma su­gli «atti persecutori» sono tante, troppe. Si va dalla situazione in cui un corteg­giatore asfissiante importuna una mal­capitata a quella di un capo ufficio che impartisce disposizioni, soggettivamen­te male accolte, a un suo dipendente. Ma si potrebbe anche arrivare – perché no? – alla condizione di «infelicità» procura­ta a un ‘sottoposto’ da chi applica una qualunque forma di disciplina (regole as­sociative, obblighi e doveri legati a un particolare status).

Il secondo allarme nasce da un vizio a­nalogo a quello di cui ci siamo appena oc­cupati – la genericità – rafforzato da una dose d’urto di malizia legislativa. La se­conda parte del titolo del testo unificato – «(Misure) contro la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale o sul­l’identità di genere» – è, del resto, elo­quente. E il senso complessivo dell’arti­colo 3 è scoperto: l’obiettivo ideologico perseguito è infatti l’introduzione nel­l’ordinamento italiano del concetto fi­nora sconosciuto di gender ( genere), ren­dendolo sostanzialmente equivalente a «orientamento sessuale», e di creare la base per sostituirlo a quelli di «uomo», «donna» e «sesso». Puntando, per di più, a equipararlo a «razza», «etnia», «nazio­ne » e «religione». La malizia sta nel mezzo prescelto. Una regola orientata, secondo un sentimen­to giustamente condiviso, a sanzionare intollerabili atti di violenza e di discrimi­nazione compiuti, per motivi di ordine sessuale, contro la persona viene fatta e­volvere in una norma posta a presidio di una pretesa categoria discriminata (gli o­mosessuali). Ma la malizia sta anche nel­la strumentalità di tutto questo. Sembra quasi – e senza quasi – che si voglia for­giare un grimaldello in grado di spalan­care altre porte legislative. E che si pre­tenda di farlo, in forza di legge, nel nome della «categoria» sostituita alla «perso­na », del «genere» dissociato dal «sesso biologico» ovvero dell’opzione culturale sovraordinata alla natura. C’è da augurarsi che in Commissione Giustizia della Camera, e non solo lì, ci si ripensi. Che si corregga seriamente il ti­tolo, e si riveda saggiamente il testo.

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