L'ideologia del "genere". Quel grimaldello dietro una causa buona.
(Marco Tarquinio - L'Avvenire) Non sempre ai titoli corrispondono testi coerenti e conseguenti. Ma qualche volta accade. E non è sempre una buona notizia. La riprova la offre – nuovo caso in questa legislatura – il lavorìo parlamentare intorno a una proposta di legge dall’intitolazione suggestiva e, per certi versi, emozionalmente coinvolgente eppure in grado di far scattare più di un serio allarme. Ci riferiamo al testo unificato elaborato in Commissione Giustizia della Camera per stabilire «Misure contro gli atti persecutori e la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere ». Un testo sbrigativamente ribattezzato «legge anti-omofobia» (ma non solo e soltanto di questo si tratta) e fatto passare per un «adeguamento» a «obbligatori » standard normativi europei (che in realtà obbligatori non sono affatto). Un progetto, lo diciamo subito a scanso di equivoci, che non inquieta di certo per l’obiettivo che suggerisce –l’impegno contro persecuzioni e discriminazioni per motivi di ordine sessuale –, ma per le categorie giuridiche che punta a introdurre nel nostro ordinamento e per il modo in cui persegue questo fine dichiarato, appunto, sin dal titolo.
Il primo allarme viene fatto suonare dall’incipit del titolo della bozza – «Misure contro gli atti persecutori» – e cioè dall’importazione nel codice penale italiano del cosiddetto reato di molestia grave e insistente ( stalking). Un’operazione purtroppo condotta all’insegna di un’indeterminatezza che disorienta e sgomenta. La norma, se davvero venisse varata, punirebbe infatti «chiunque reiteratamente, con qualunque mezzo, minaccia o molesta taluno in modo tale da infliggergli un grave disagio psichico» o arriva a «pregiudicare in maniera rilevante il suo modo di vivere». Come s’intuisce facilmente, le possibili applicazioni di una simile vaghissima norma sugli «atti persecutori» sono tante, troppe. Si va dalla situazione in cui un corteggiatore asfissiante importuna una malcapitata a quella di un capo ufficio che impartisce disposizioni, soggettivamente male accolte, a un suo dipendente. Ma si potrebbe anche arrivare – perché no? – alla condizione di «infelicità» procurata a un ‘sottoposto’ da chi applica una qualunque forma di disciplina (regole associative, obblighi e doveri legati a un particolare status).
Il secondo allarme nasce da un vizio analogo a quello di cui ci siamo appena occupati – la genericità – rafforzato da una dose d’urto di malizia legislativa. La seconda parte del titolo del testo unificato – «(Misure) contro la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere» – è, del resto, eloquente. E il senso complessivo dell’articolo 3 è scoperto: l’obiettivo ideologico perseguito è infatti l’introduzione nell’ordinamento italiano del concetto finora sconosciuto di gender ( genere), rendendolo sostanzialmente equivalente a «orientamento sessuale», e di creare la base per sostituirlo a quelli di «uomo», «donna» e «sesso». Puntando, per di più, a equipararlo a «razza», «etnia», «nazione » e «religione». La malizia sta nel mezzo prescelto. Una regola orientata, secondo un sentimento giustamente condiviso, a sanzionare intollerabili atti di violenza e di discriminazione compiuti, per motivi di ordine sessuale, contro la persona viene fatta evolvere in una norma posta a presidio di una pretesa categoria discriminata (gli omosessuali). Ma la malizia sta anche nella strumentalità di tutto questo. Sembra quasi – e senza quasi – che si voglia forgiare un grimaldello in grado di spalancare altre porte legislative. E che si pretenda di farlo, in forza di legge, nel nome della «categoria» sostituita alla «persona », del «genere» dissociato dal «sesso biologico» ovvero dell’opzione culturale sovraordinata alla natura. C’è da augurarsi che in Commissione Giustizia della Camera, e non solo lì, ci si ripensi. Che si corregga seriamente il titolo, e si riveda saggiamente il testo.
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