(Luigi Caramiello - Il Corriere del Mezzogiorno) Molti ragazzi in ospedale con seri malori. Qualcuno parla di otto ambulanze impegnate nei soccorsi. Uno studente stroncato da una miscela micidiale di droghe, più o meno leggere, più o meno legali: alcol, hashish, farmaci antidepressivi, amfetamine.
Un bollettino di guerra, soprattutto se si pensa che era una festa di Halloween, un momento di divertimento, gioia, evasione. Una volta i rave, erano illegali, segreti, la notizia girava con un sotterraneo tam-tam: telefonate, messaggini. Fino a poche ore prima erano in pochi a sapere dove si sarebbe svolto il party.
Una fabbrica in disarmo, una valle nascosta in montagna, un vecchio magazzino abbandonato? Era un aspetto del loro «fascino». Ora invece settemila persone sono accolte, per soli 40 euro a testa, in una struttura pubblica, la Mostra d’Oltremare, il cui presidente, confessa di aver sostenuto l’iniziativa per averne un ritorno economico, ma, soprattutto, per avvicinare nuovi target di pubblico. Purtroppo non è stata una buona operazione di marketing. Ma non voglio scaricare le responsabilità solo sul presidente Cercola. L’iniziativa godeva anche di importanti patrocini istituzionali: Regione e Provincia, assessorati all’Università, Ricerca scientifica, Innovazione tecnologica; e Comune di Napoli, assessorato alla Cultura. Ora leggo che il servizio d’ordine ha evitato, per l’intera notte, la circolazione di droga all’interno dei padiglioni. È semplicemente una barzelletta. Un rave senza droga? Siamo seri! Chiunque ci ha messo piede sa che queste feste si caratterizzano, soprattutto, per due cose: una ritmica musicale ossessiva e un diffuso consumo di sostanze stupefacenti. Sfido chiunque a indicarmi un solo rave, in qualsiasi posto del mondo, che non sia stato una festa della droga. La situazione non è che cambia semplicemente perché l’iniziativa è «istituzionale», e ha il timbro dell’Asl. Alla luce degli avvenimenti, l’unica differenza fra un rave illegale e uno «legale» è che, in questo caso, il bilancio è molto più tragico.
Un ragazzo morto e altri intossicati che, per fortuna, la scampano, è un bollettino molto più pesante di quello solito dei rave «illegali». Chissà, forse in una festa illegale, il giovane, cosciente di essere in un contesto «deviante», sa che deve contenersi, frenare. Nessuno gli impedisce di spingere, ma sa bene quello che rischia. Potrebbe non essere soccorso in tempo, l’ambulanza potrebbe addirittura non trovare il posto che ospita la festa. Ma quando un raduno così può avvalersi dei crismi dell’ufficialità, quando si svolge in una tale cornice di pubblica legittimazione, un ragazzo si sente garantito, «coperto»: disattiva i meccanismi inibitori, allenta i meccanismi di controllo, tanto se c’è qualche problema ci pensano «loro». E la tragedia si compie. Francamente sgomenta sentire gli stessi «esperti» che giorni fa ci propinavano disinvolti la ricetta della liberalizzazione girare la testa dall’altra parte e discettare astrattamente di «logiche terroristiche», glissando su quello che è accaduto, in uno spazio sostanzialmente «libero».
Se guardiamo il Free Party dell’altra sera come una prova generale sugli esiti di una possibile legalizzazione di droghe, in un’area «controllata» del territorio, ne ricaviamo la sensazione che, effettivamente, lo scenario è terroristico. Nel senso che l’impennata del consumo che si rileva, e i drammi cui conduce, terrorizzerebbero qualsiasi persona di buon senso. Ma è mai possibile che per gli avversari di tutte le liberalizzazioni di cui l’Italia ha disperato bisogno c’è un’unica liberalizzazione su cui non nutrono dubbi, quella della droga?
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