La tragedia di Ischia: le accuse della madre, le reazioni al liceo.
(Giancristiano Desiderio - Il Corriere del Mezzogiorno) Su un banco di scuola ho letto, tra le tante cose che leggo sui banchi scolastici delle mie alunne e dei miei alunni, questa frase terribile e ironica: «Mi guardate storto perché sono diverso, ma io vi guardo e rido perché siete tutti uguali». Inevitabilmente, la frase mi è ritornata in mente quando ho saputo della drammatica morte del liceale di Ischia. Le migliaia di scuole d’Italia sono un’unica grande classe e che cosa è accaduto nel liceo «Scotti» di Ischia è scritto a chiare lettere sul banco di una classe del mio istituto d’arte di Caserta: la logica del gruppo isola un ragazzo e su di lui scarica la sua «naturale» aggressività.
L’autore della frase (o, magari, gli autori) mostra di conoscere, in modo del tutto spontaneo, il fenomeno dell’isolamento sociale e morale che ognuno di noi ha potuto sperimentare per la prima volta proprio quando era tra i banchi.
Contemporaneamente mostra anche di sapere cosa fare per difendersi dall’aggressività del gruppo: usare l’ironia.
Ieri il Corriere del Mezzogiorno e il Corriere della Sera, nel tentativo di spiegare l’assurda morte del quattordicenne di Ischia, hanno intervistato una scrittrice, Paola Tavella, e uno psicoterapeuta, Fulvio Scaparro. La scrittrice, autrice de Gli ultimi della classe, sostiene che il ragazzo di Ischia sia stato preso di mira e perseguitato, fino all’isolamento e al rifiuto sociale, perché troppo studioso. In una scuola in cui lo studio non è più un merito ma un demerito e dove la regola è la mediocrità, chi studia e ha ottimi voti diventa un «diverso» ed è perseguitato. Per Fulvio Scaparro, invece, l’invidia per gli ottimi voti non c’entra. Ci sono tanti ragazzi che soffrono a scuola, ma non sono secchioni. La loro colpa, semmai, è quella di differenziarsi dal gruppo: «Lui era deriso per i suoi voti, il ragazzino che si è suicidato a Torino perché gli davano del gay. E non importa che lo fosse davvero. L’uno e l’altro sono diventati dei capri espiatori su cui si è concentrata l’aggressività del gruppo».
L’invidia per i voti alti e il buon rendimento è senz’altro parte del mondo della scuola. Le ragazze, in particolare, sono più invidiose dei ragazzi che, invece, rispondono ai buoni voti del primo o della prima della classe con un sorriso o un’alzata di spalle. Ma ciò che è peculiare della vita sociale della classe è proprio la dinamica del capro espiatorio: uno solo o una sola diventa il bersaglio di tutti. Il motivo che scatena l’aggressività (il dileggio, gli sfottò, i risolini, le calunnie) cambia: può essere l’aspetto fisico o la timidezza, la sensibilità o lo studio. Ciò che non muta è la logica dell’aggressività del gruppo: c’è sempre qualcuno che, per un motivo o per un altro, è preso di mira, messo in mezzo, emarginato, escluso dal gruppo. Il «gioco» può essere tanto sopportabile quanto insopportabile: dipende dalle spalle del ragazzo o della ragazza isolata, ma anche e soprattutto dalla forza del gruppo che «gioca» proprio per far male. La decisione del liceale di Ischia di candidarsi come rappresentante della classe, proprio lui che era rifiutato dalla classe, era un disperato grido di aiuto e dolore: per favore, fatemi stare con voi. Come si fa ad ascoltare questo aiuto? Ecco, allora, che per i professori si pone la questione: cosa deve fare la scuola? Come intervenire? Fin quando tollerare l’aggressività del gruppo o cosa fare per riportare la dinamica nei suoi confini fisiologici?
Non ho la risposta in tasca. So solo che la scuola italiana è troppo concentrata sui «saperi» e troppo poco sull’educazione. So solo che l’alunno o gli alunni che hanno scritto quella frase rivelatrice sul loro banco di scuola mi hanno indicato la strada da seguire: smontare la logica irrazionale e aberrante del capro espiatorio facendo uso della sana risorsa dell’ironia. Mi sforzo ogni giorno di portare Socrate in classe (con ironia, mi raccomando) perché credo che il compito della scuola non sia quello di travasare il sapere da una testa all’altra, come se le teste dei ragazzi fossero vasi da riempire, bensì quello di educare al senso della diversità e della responsabilità.
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