Di reincarico per un nuovo governo a Romano Prodi neanche a parlarne. Giorgio Napolitano e il Professore si sono lasciati in modo freddo, dopo che il presidente della Repubblica aveva inutilmente consigliato a quello del Consiglio di non tentare prove di forza al Senato. Ma non è questo il motivo principale: non esiste più una maggioranza né di sinistra né rimpolpata da qualche aiuto centrista (Udc) per pensare ad una nuova stagione prodiana.
Per lo stesso motivo impossibile anche un proseguimento dell’Unione con il semplice cambio del premier, come avvenne nel 1998 quando Prodi fu sostituito da Massimo D’Alema. Dopo l’abbandono dell’Udeur, di Lamberto Dini, e di altri singoli parlamentari, i numeri al Senato non ci sono proprio più.
Ma soprattutto ad essere a pezzi sono i rapporti interni nella sinistra. I prodiani sono in rivolta contro il Pd e Walter Veltroni, accusati di essere il vero motivo della crisi. La sinistra estrema accusa di tradimento il Pd e, senza dirlo, pensa che Prodi l’abbia lanciata allo sbaraglio. Tutti temono poi un’intesa sottobanco tra il segretario del Pd e Silvio Berlusconi per una legge elettorale a danno dei partiti minori.
Ipotesi questa che nello staff del sindaco di Roma e nel Partito democratico si continua a perseguire: non solo perché è considerata una necessità per il Paese, ma perché sta diventando l’ancora di salvezza per lo stesso Veltroni. L’appello lanciato da Goffredo Bettini al Cavaliere (”Può lavorare per la cronaca oppure per la storia”) va in questa direzione. Ma difficilmente, stavolta, troverà udienza.
Certo, la riforma delle regole del voto terrà banco nelle consultazioni al Colle e negli scenari. Napolitano ha sempre detto di non voler sciogliere le camere senza una legge che dia al Paese assetti più stabili. Ma non può decidere da solo, deve tenere conto dei numeri.
Di quanti cioè sono favorevoli ad elezioni subito. I conti sono presto fatti: Forza Italia (o Pdl), Lega e An nel centrodestra; Sinistra democratica, Udeur, Comunisti italiani e buona parte dei prodiani nell’ex Unione. A favore di un governo istituzionale, tecnico o di transito sono l’Udc e i pochi parlamentari di Lamberto Dini. Il “governissimo” (Pd più Forza Italia, più Rifondazione, più Udc, rimpolpato da tecnici) avrebbe ad oggi l’appoggio solo di Veltroni, Fausto Bertinotti e Pier Ferdinando Casini. Insomma, dei diretti interessati.
E c’è un altra questione: il referendum. Se continua la legislatura si deve tenere tra il 15 aprile e il 15 giugno. Qualsiasi riforma della legge elettorale dovrebbe materializzarsi da qui a due mesi: non è accaduto a bocce ferme nelle passate dieci settimane, praticamente impossibile che ci si riesca adesso.
D’altra parte la politica torna ad annusare l’”odore del sangue”. Un rivincita da prendere, come nel caso di Berlusconi e di gran parte del centrodestra. Vendette da consumare per l’estrema sinistra, i prodiani, l’Udeur. La salvezza rispetto al referendum per tutti i piccoli partiti da una parte e dall’altra.
Insomma, nei prossimi giorni sentiremo probabilmente molte ipotesi e molti nomi circolare: da Franco Marini o Giuliano Amato per un governo istituzionale, al governatore di Bankitalia Mario Draghi per un esecutivo tecnico. Rispunterà l’economista Mario Monti. Ma alla fine quasi certamente si andrà alle elezioni anticipate, con Prodi in carica per il disbrigo degli affari correnti. A meno che il Professore non si ritiri iracondo come Cincinnato; in questo caso toccherà ad Amato condurre il Paese alle urne.
Magari in questo breve lasso di tempo si ritoccherà la legge esistente per eliminare il quoziente regionale al Senato, un meccanismo che impedisce di conquistare seggi anche in caso di larga vitoria. E forse il voto anticipato converrà anche a Veltroni, prima di finire sbranato dagli ex alleati dell’Unione. Dopodiché, altra cosa su cui scommettere, la coalizione vittoriosa si impegnerà a fare le riforme dopo il voto, dialogando con gli sconfitti.
Le solite promesse? Vedremo.
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