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sabato 17 novembre 2007

Impiccato a 18 anni nell'Iran di Ahmadinejad.

(Dimitri Buffa - L'Occidentale) All’alba di ieri è stato impiccato sulla pubblica piazza della città iraniana di Hamedan il diciottenne Mohammed Reza Turk. Di anni ne aveva sedici al momento dell’omicidio di un suo coetaneo di cui è stato accusato. Le baby gang esistono anche in Iran, solo che lì c’è la certezza della pena: quella di morte. I parenti dell’ucciso non lo hanno perdonato. Né voluto che pagasse in soldi la sua famiglia il prezzo del sangue.

E quindi secondo la feroce legge della shar’ia sciita l’impiccagione è diventata inevitabile.

Dall’inizio dell’anno sono oltre 270 le vittime del boia di Teheran e i reati spesso non sono solo di sangue ma anche di natura sessuale. Con la vita infatti si pagano sia i rapporti omosessuali e l’incesto sia l’adulterio. Ma si finisce lapidati anche per avere subito (badate bene: subito) uno stupro.

Ne sa qualcosa la sedicenne Zhila Yiadi, che ne aveva tredici quando nel 2005 il fratello la violentò e dalla violenza nacque un figlio. Pochi mesi fa infatti questa ragazzina è stata lapidata senza pietà.

L’elenco potrebbe allungarsi fino a diventare uno di quei rapporti che “Amnesty” - amnesy international si dimentica spesso di pubblicizzare, non di compilare, quando c’è di mezzo il regime degli ayatollah.

Che ieri è finito su tutte le prime pagine per la crudeltà delle dichiarazioni del proprio membro della commissione parlamentare sull’energia e capo delegazione in Inghilterra Mohsen Yayhavi. Yyahavi infatti ha detto al proprio interlocutore, il primo ministro inglese Gordon Brown, che ci sono ottime ragioni per impiccare e torturare gli omosessuali. Meglio se impiccarli dopo averli torturati.

E questo perché non si riproducono e danno scandalo oltre che per il fatto che la pubblica attestazione di omosessualità è punita senza pietà dalla shar’ia coranica. Putroppo queste parole in Iran raccontano fatti che continuano ad accadere e di cui in Europa ce ne aggorgiamo raramente.

Come quando lo scorso settembre scoppiò il caso della lesbica iraniana Pegah Emamabaksh che era stata costretta chiedere all’Inghilterra di non estradarla a Teheran per evitare la stessa sorte che l’esponente politico iraniano suddetto si augura per tutti gli omosessuali. E ce la fece per un soffio visto che l’ottusa burocrazia giudiziaria britannica sosteneva che nulla ostasse al ritorno in patria della donna non essendo riuscita la stessa dimostrare di essere passibile in Iran di una qualche forma di persecuzione. Il fatto che ne venisse chiesta l’estradizione per il reato di omosessualità invece non insospettì i giudici che dovevano decidere. E se non ci fosse stata la mobilitazione internazionale chissà come sarebbe andata a finire.

Non così fortunata è invece stata lo scorso 17 ottobre la povera Fakhte Samadi, una donna impiccata per avere ucciso il pretendente marito, una sorta di padre padrone di 80 anni che la violentava e la costringeva ad avere rapporti sessuali con lui nonstante la donna non volesse nenche sposarlo.

Quello stesso giorno che Fakhte veniva impiccata nel carcere di Evin, a farle compagnia ci sono state altre dieci persone tra cui un ragazzo di diciotto anni.

Cari europei, l’Iran oggi è questo. E non è un caso se gli esponenti in esilio della resistenza pregano ogni giorno che Dio manda in terra che George W Bush si decida a rovesciare il regime degli ayatollah e di Ahmadimejad.

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