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lunedì 26 novembre 2007

Ecco chi è Ezio Mauro il diretto di repubblica che fa il moralista.

(Giancarlo Perna - Il Giornale) Col piglio del moralista vecchio-Piemonte, Ezio Mauro ha denunciato su Repubblica, il quotidiano da lui egregiamente diretto, il presunto inciucio tra Rai e Mediaset. Basandosi sulle solite intercettazioni, ha fatto sapere che dirigenti e giornalisti delle due aziende si consultavano prima di mandare in onda fatti di rilievo, dai funerali di Papa Wojtyla ai sondaggi elettorali. Il tutto a scapito della sana concorrenza e allo scopo meschino di favorire il Cavaliere, all'epoca (2004-2005) presidente del Consiglio.
Il direttore ha poi commentato la vicenda il 22 novembre con un editoriale apocalittico. Ha evocato, nell'ordine, la fine del giornalismo indipendente, il dominio di un «Grande Fratello» dell'informazione, di una «rete segreta» pro Berlusconi, di un «meccanismo totale perverso» e infine di una «struttura delta» che, per la verità, solo Mauro sa cosa sia. La fulgida intemerata termina avvertendo che tanto orrore è frutto della «stessa mano che domani proporrà le larghe intese». Ossia, che dietro al putridume c'è l'artiglio del Cavaliere.
La chiusa è illuminante. Ci dà la chiave per capire cosa ha spinto Mauro a montare la panna. Il padrone di Repubblica, l'ingegner Carlo De Benedetti, è seccato per gli accordi che si profilano tra il capo del Pd, Walter Veltroni, e il leader del Partito della Libertà, Berlusconi. De Benedetti - grande sponsor di Walter e tessera numero uno del Pd - vede come fumo negli occhi intese col suo acerrimo nemico che lo ha recentemente battuto sul caso Sme. Perciò ha ordinato a Ezio di gonfiare il caso Rai-Mediaset. Ha pensato così di prendere due piccioni con una fava: svergognare il Berlusca dandogli del golpista e ammonire Veltroni dall'accordarsi con un ceffo di tal fatta. Il senso dello scoop è tutto qui.
È stato già osservato che intrecci come quelli tra Rai e Mediaset sono all'ordine del giorno nel mondo dell'informazione. Non bello, ma si fa. Il più noto di questi inciuci fu organizzato proprio da Mauro, l'odierno bacchettone. Era il 1992, ed Ezio sulla poltrona più alta della Stampa. Fu lui, pare, a proporre ai suoi parigrado del Corsera, Paolo Mieli, e della Repubblica, Eugenio Scalfari un patto di consultazione permanente. Sul far della sera, la Trimurti si adunava in conciliaboli telefonici per accordarsi sui titoli di apertura dei rispettivi giornali e sulle notizie scomode da imboscare a pagina trentatré. Così si sfornavano per il cappuccino dell'indomani, tre quotidiani uguali come maritozzi. Il fine era dare una mano ai governi Amato e Ciampi o, nel caso improbabile di qualche rasoiata, coprirsi a vicenda. A volte, era della partita anche la pidiessina Unità, diretta da Walter Veltroni. La faccenda - eguale se non peggiore a quella Rai-Mediaset - andò avanti per un bel po'. Alla faccia della concorrenza virtuosamente evocata da Ezio nel j'accuse del 22 novembre.

Mauro è un abilissimo giornalista di 59 anni. Prima di dirigere Repubblica è stato vice di Mieli alla Stampa e poi suo successore per quattro anni. Ezio è innamorato del potere, ma anche della sua professione. Era ancora alla Stampa, quando in piena notte la prima pagina dovette essere sbaraccata per far posto a una notiziona appena giunta. Mauro e la redazione si gettarono freneticamente nel lavoro. Compiuta l'impresa, Ezio esclamò esaltato: «Ragazzi, ma non è meglio questo di una scop...ta?». «Parla per te», fu la laconica risposta di un redattore.
Ezio è un piemontese di Dronero che presto si trapiantò a Torino. Incline alla sinistra per natura, frequentò però la scuola dai salesiani. L'impasto ne ha fatto un cattocomunista dalla testa ai piedi. Debuttò come giornalista alla Gazzetta del Popolo. Il quotidiano - ormai estinto da un quarto di secolo - era allora nelle mani di Carlo Donat Cattin, politico e sindacalista della sinistra dc. Nella direzione c'era il figlio, Claudio, cui Ezio si attaccò facendogli da factotum. Nello scrivere, il ragazzetto dimostrò subito due caratteristiche: zelo e puntigliosità. Preciso, informato, senza voli. Ma la sua virtù principale era la capacità di adattamento all'interlocutore. Se intervistava l'allora sindaco comunista di Torino, Diego Novelli, gli dava l'impressione di essere un compagno. Se parlava con Guido Bodrato, allora potente dc piemontese, quello avrebbe giurato di trovarsi di fronte a un chierichetto. Queste virtù camaleontiche furono poi il viatico della sua bella carriera.
Dalla Gazzetta, Ezio passò dieci anni dopo, nel 1981, alla Stampa. A inserirlo nell'universo Agnelli, fu Marco Benedetto, l'amministratore del giornale. D'ora in avanti, Mauro ne sarà il delfino. Fu Benedetto infatti - divenuto consigliere delegato di Repubblica - a introdurlo anche nel quotidiano di Scalfari alla fine degli anni '80.
Della Stampa, Ezio divenne in breve una star. Si trasferì a Roma e cominciò a frequentare Montecitorio come cronista parlamentare. Sono gli anni dell'antagonismo tra il dc Ciriaco De Mita e il psi Bettino Craxi. Se un giornalista aveva rapporti cordiali con l'uno, con l'altro aveva chiuso. Ezio invece era in buona con entrambi. A Ciriaco faceva credere di pendere dalle sue labbra, a Bettino di essere la luce dei suoi occhi. Ma era solo innamorato di sé e badava unicamente alla carriera. Fece un eccellente lavoro e divenne capo della redazione romana.

Ogni tanto entrava in redazione col viso sgualcito. I colleghi lo attribuivano a tenzoni amorose. Storie in genere complicate e celebrali. Oggi, è separato dalla prima moglie e ha un bimbo da una nuova compagna. Nonostante la vita ardita, Mauro è un tipo di rigorose apparenze. Si ispira ai principi dell'azionismo torinese, un tempo incarnato da Norberto Bobbio e Alessandro Galante Garrone, entrambi vezzeggiati collaboratori della Stampa. In soldoni: rigida austerità, ossequio al Pci e al sindacato, rifiuto per la destra, disprezzo per Craxi, disgusto per Berlusconi. Il tutto in stile piemontese falso e cortese. Tra questi punti fermi, il sobrio vestire mutuato dalla galleria dei mitici direttori del XX secolo, gli Albertini, i Frassati, i Missiroli. Il marchio di Ezio è la camicia bianca, abbacinante e con bagliori, cui attribuisce un significato etico di autorevolezza ed equilibrio.
Nell'88, presentato dal già citato Benedetto a Scalfari, Ezio entrò a Repubblica con l'aureola di direttore in pectore. In vista del salto, fu subito messo a fare grandi cose. Andò come corrispondente a Mosca per seguire l'affossamento dell'Urss intrapreso da Gorbaciov. Lievitò ogni giorno di più, sommergendoci di sue interpretazioni sulla perestrojka. Una volta che un suo articolo moscovita apparve su un mensile che ospitava anche un ritratto irriverente di Scalfari, si indignò col direttore, Giordano Bruno Guerri, più o meno con queste parole: «Come hai osato affiancare la mia firma a quella porcheria, sapendo che un giorno succederò io a Scalfari? Con te ho chiuso».
Dopo la Russia passò negli Usa, dove fu cooptato nell'aurea cerchia del giornalismo italo-newyorkese dei Furio Colombo, Gianni Riotta, Lucia Annunziata. Quando si sentì pronto per la direzione, cominciò a sperimentarla con un improvviso rientro alla Stampa come vice di Mieli nel '90 e poi alla direzione. Finché nel '96 si insediò finalmente alla testa di Repubblica scalzando, con stupor del mondo, il settantaduenne Eugenio ancora pieno di linfa e di vigore.

Ormai definitivamente romanizzato, il nostro simpatico droneriano vive oggi in un attico dei Monti Parioli. Gli avvincenti particolari dell'acquisto di questa magione sono stati raccontati dal quotidiano Il Tempo, all'epoca in cui era diretto dall'eccezionale Franco Bechis. La casa apparteneva ad Alberto Grotti, ex vice presidente dell'Eni, fedelissimo del dc Arnaldo Forlani. Con Tangentopoli, Grotti passò i guai suoi, fu incarcerato e ridotto sul lastrico. Un giorno, Repubblica uscì col titolo: «Scoperto alle Bahamas il tesoretto di Grotti». Grotti si ritenne calunniato e volle querelare. Ma, non avendo più soldi per le spese legali, decise di procurarseli vendendo la casa dei Monti Parioli. Incaricò della faccenda il suo commercialista fissando il prezzo in 2,1 miliardi di vecchie lire. Il primo a presentarsi come compratore fu Ezio. Così, per uno straordinario caso della vita, Grotti ebbe dal direttore di Repubblica i soldi per fare causa alla medesima. Non tutto però filò liscio. Pagato il grosso al momento dell'atto, Ezio pretese, per averne vantaggi fiscali, di pagare un residuo di 850 milioni in nero che consegnò a parte al commercialista. Ma, pare che Grotti non li abbia mai visti. Così, chiamò in giudizio il professionista e la presunta evasione di Mauro si è risaputa.
Con buona pace del moralismo azionista del petulante direttore.

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