Addirittura si è scusato con il rappresentate dell’Arcigay dell’epilogo che ha avuto la vicenda dei Dico.
Berlusconi: non faccio shopping, do collocazione politica agli scontenti.
(Augusto Minzolini - La Stampa) Un leader politico, un premier può dire in tanti modi che la sua esperienza di governo è finita, che si torna a casa, ma Romano Prodi sorprende anche quando indossa i panni della Cassandra e prevede la propria fine. Per gettare la spugna il Professore non ha riunito un consiglio dei ministri, nè il vertice del nuovo Partito democratico ma lo ha detto alle 8 del mattino di giovedì scorso a Palazzo Chigi a due semiconoscenti i direttori di Liberazione, Piero Sansonetti, e del Manifesto, Gabriele Polo, e a tre sconosciuti il presidente dell’Arcigay, Aurelio Mancuso, una nota femminista romana e una rappresentante della Fiom. In poche parole il comitato organizzatore della manifestazione della sinistra radicale sul Welfare.
Quella di Prodi più che una resa è stato un «j’accuse». «Questo governo - si è sfogato con i suoi interlocutori - cade per corruzione. Ci sono sette senatori che sono passati, in un modo o nell’altro, con Berlusconi. Qualcuno di loro me lo è venuto anche a dire. Mi ha spiegato: “Romano tengo famiglia”. E io che gli potevo dire se l’argomentazione è questa... E’ un’operazione che a Berlusconi deve essere costata una bella somma...Comunque alla fine il Cavaliere ce l’ha fatta. Se sarà tra quindici giorni, a fine di ottobre, oppure agli inizi di novembre o, ancora, a metà del mese prossimo poco importa, ciò che conta è che l’esperienza di questo governo è finita. Ormai non è un’ipotesi ma una cosa certa».
Non solo. Il Professore è sicuro anche di un’altra cosa: «Non ci sarà - ha spiegato a quello strano consesso - un altro governo ma le elezioni. Magari subito dopo Natale, a gennaio. Basta farsi due conti: se uno passa dall’altra parte perché gli è stato promesso un collegio non ha interesse ad appoggiare un altro governo istituzionale o tecnico che sia. Altrimenti la promessa che gli è stata fatta potrebbe venire meno».
Ma non è solo «la corruzione», secondo il Professore, la causa della sua fine. Le ragioni vanno ricercate anche in una certa indolenza del centro-sinistra. E in questa riflessione a «voce alta» il Professore ha addirittura rivalutato il nemico di ieri, D’Alema, rispetto al pupillo di un tempo, Veltroni. Lo ha fatto usando l’arte della maieutica, chiedendo cioè un paragone tra Walter e Massimo al grande estimatore del ministero degli Esteri, Sansonetti: «Mi dicono tutti - è stata la sua domanda al direttore di Liberazione - che Veltroni è più cinico di D’Alema? Lo pensi anche tu?». E non contento il Professore ha chiosato il «si» scontato del fan di «baffino» con il tradizionale «mi sa tanto anche a me».
Ancora non ha lasciato palazzo Chigi e già il Professore ha cominciato a togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Addirittura si è scusato con il rappresentate dell’Arcigay dell’epilogo che ha avuto la vicenda dei Dico. «Io quel provvedimento - ha spiegato - lo avrei approvato anche nella prima versione. Solo che non ho mai avuto i numeri in Parlamento sulle cose che contano». Ed ancora contro quegli «ingrati degli industriali: «Il cuneo fiscale è stato un regalo eccessivo alle imprese. Se potessi tornare indietro non lo rifarei». Il Professore è già arrivato a fare l’elenco delle cose che non si dovevano fare, che si potevano fare meglio, di ciò che poteva essere e che non è stato. Parla già della sua seconda volta a Palazzo Chigi come di un’esperienza nata storta e finita peggio. E anche ai suoi interlocutori ha fatto presente che la manifestazione di oggi non aiuta di certo questa travagliata esperienza di governo. «Anche voi con questa iniziativa - si è lamentato - contribuite ad aggravare il quadro. Domani i media torneranno ad assalire questa maggioranza, diranno che la vostra manifestazione di fatto è contro il governo. Cosa volete che vi dica!?...».
Appunto, ma tra le tante cose che poteva dirgli sicuramente quella che meno si aspettavano i cinque semisconosciuti era questo «sfogo» sincero, quasi personale. Tanto che c’è da chiedersi perché il Professore l’abbia fatto. Prodi è tutto meno che uno sprovveduto. E’ un uomo che ha alle spalle trent’anni di esperienza nelle stanze del Potere. Quello vero. Per cui se ha parlato con dei perfetti sconosciuti si può scommettere che voleva che queste sue riflessioni private diventassero pubbliche. Ha detto quello che pensa coperto dal manto della «non ufficialità» che lo deresponsabilizza rispetto alla pesantezza delle accuse che lancia. Tra le quali una sopra a tutte: quella che il suo governo sarà vittima di un’operazione di corruzione. Del resto è l’ultima arma che ha, magari scontata, di scuola, ma pur sempre efficace: additare quelli che lo tradiranno come dei Giuda che si vendono per trenta denari. E’ un’operazione ad alto rischio che dimostra la «disperazione» ma anche l’ostinazione del personaggio che non si dà per vinto.
Un’operazione di scuola, appunto, che il suo avversario, Silvio Berlusconi, sentiva nell’aria. Anche lui ieri, in un’occasione normale e privata, andando per negozi nel centro di Roma, se ne è uscito con delle affermazioni che sembrano una risposta alle accuse di Prodi. Le vecchie volpi che si fronteggiano da dieci anni ormai si conoscono a memoria. «Non faccio - ha dichiarato il Cavaliere - nessun shopping di senatori. Non c’è nessuna compravendita. Io quello che posso fare è offrire un collocazione politica e dare garanzie certe agli esclusi del Pd. Collocazione significa anche dare un posto a chi non ce l’ha come ho fatto con il segretario della nuova Dc, Rotondi».
Siamo al botta e risposta. Prima dell’epilogo. Prodi sta tentando un’ultima difesa. Berlusconi tenta di dare il colpo finale. Del resto che siamo a questo punto lo si è capito ieri confrontando quello che è avvenuto a Lisbona e a Roma. L’Italia è stata esclusa da un incontro tra i premier di Francia, Germania e Inghilterra sulla crisi della finanza mondiale. «Non so che sia - si è limitato a dire il Professore - non ne so niente». Il commento laconico del capo di un governo che le capitali europee forse già considerano morto. Berlusconi, invece, ha inviato a Roma una lettera ai senatori e ai deputati di Forza Italia per annunciargli che «la crisi del governo nato dai brogli è inevitabile e che si voterà in primavera».
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