Mai Sanford, 65 anni, avrebbe sospettato che 2 anni dopo avrebbe vinto il premio Pulitzer per avere raccontato sulla prima pagina del Wall Street Journal come un nuovo cocktail di medicine aveva salvato lui e milioni di altri malati, trasformando l’Aids da condanna mortale in malattia cronica. E mai avrebbe potuto prevedere che 12 anni dopo sarebbe stato ancora bene, e che seduto in un ristorante di Manhattan avrebbe descritto con un misto di gratitudine e fastidio a un giornalista di Panorama le quattro pillole che gli permettono di non morire.
La prima si chiama Norvir ed è bianca e cicciottella: «Una volta di queste ne dovevi prendere sei e ti davano la nausea, ora ne basta una e non ha grandi controindicazioni, solo bisogna ricordarsi di tenerla sempre in frigo perché altrimenti perde il suo effetto, e quando viaggi è un problema». Poi ci sono una pillola bianca e blu, che si chiama Emtriva, e una blu, Reyataz, che va presa due volte al giorno: «Di queste so solo che permettono di diminuire il dosaggio del Norvir, e che senza di loro il cocktail magico non funzionerebbe».
Infine c’è una pillola color salmone, lo Zerit: «Questa è la peggiore, ti toglie il senso del tatto dalla punta delle dita di mani e piedi, ti fa accumulare grasso sulle spalle e la pancia ma rende scheletriche la faccia, le gambe e le braccia. Però il dottore sostiene che è una medicina incredibile, e se ho imparato una cosa in questi anni è proprio credere a quello che mi dice il medico».
I farmaci sono gli inibitori della proteasi e compito dei medici è trovare la giusta combinazione tra i 22 composti in commercio, poi cambiarla quando il virus si adatta alla nuova formula. Il costo della cura è circa 20 mila dollari l’anno, una cifra che la rende fuori dalla portata delle popolazioni africane, le più colpite dall’epidemia. Per quelli che invece si possono permettere un’assicurazione sanitaria, la terapia è diventata sempre meno laboriosa.
Dieci anni fa Sanford doveva prendere 17 pillole e per ricordarsene girava con due orologi da polso, mentre a casa teneva sul comodino una doppia sveglia per alzarsi e prendere le dosi notturne. La riduzione del numero di pillole non è l’unico miglioramento. Ora sono state eliminate anche medicine come lo Ziagen, che in caso di reazione allergica poteva provocare la morte immediata.
Ma che la cura non sia ancora del tutto sicura il giornalista americano lo ha scoperto sulla propria pelle circa 2 anni fa. All’inizio Sanford pensava di avere il raffreddore e non ha neppure chiamato il dottore. Né lo ha fatto quando la sua condizione è peggiorata: «Pensavo solo di avere una brutta influenza» racconta. Solo quando ha cominciato a vomitare, dopo che aveva preso le pillole, si è finalmente rivolto al medico: il giorno dopo era nel reparto terapia intensiva dell’ospedale. Prima gli venne diagnosticata una polmonite, poi smisero di funzionare fegato e reni, infine arrivò una setticemia: «Non funzionava più nulla, venni messo in dialisi. Ci volle un mese perché i reni ricominciassero a funzionare e 50 giorni per uscire dall’ospedale».
Secondo il medico, a provocare la crisi era stata una delle medicine del cocktail, che probabilmente per disidratazione aveva provocato una reazione tossica nel suo corpo. Di sicuro durante il periodo in cui, per precauzione, Sanford ha interrotto le pillole la carica virale nel sangue si è alzata tantissimo, mentre il numero dei linfociti T4 che combattono il virus è precipitato.
«Le pillole tengono sotto controllo la malattia, al punto che il virus non è più misurabile nel sangue. Non possono però eliminare l’infezione. Devi continuare a prendere il cocktail per tutta la vita» dice. «Ma si tratta di un piccolo sacrificio che ha salvato un’intera generazione di americani: prima che questa terapia fosse approvata ero circondato da amici che morivano».
Le medicine non hanno segnato la fine dell’epidemia, come aveva previsto sul New York Times il giornalista Andrew Sullivan. Ma sebbene ogni anno oltre 40 mila americani siano contagiati dal virus, le pillole permettono di continuare a vivere normalmente.
Ogni giorno Sanford lavora alla scrivania di caporedattore: il suo lavoro, da oltre 2 decenni, è editare la storia più importante sulla prima pagina del quotidiano. Da ancora più tempo il giornalista vive a Brooklyn con il suo compagno Lewis, un insegnante, sieronegativo.
Se non fosse per quelle quattro pillole da prendere ogni giorno Sanford si dimenticherebbe persino di essere malato: «Per anni, dopo la diagnosi, mi sono alzato ogni mattina sperando di potere riportare indietro il tempo, per evitare di essere contagiato. Ora quando ci penso è solo perché vorrei avere di nuovo vent’anni».
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