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mercoledì 12 dicembre 2007

Baghdad ritorna alla vita. Non è più un inferno, ma un angosciante purgatorio.

(da Baghdad Giovanni Porzio - Panorama) L’asfalto è sbriciolato dai colpi di mortaio, i marciapiedi sono ingombri di rifiuti e macerie, nelle case manca la luce, gli ospedali sono senza medicine e gli elicotteri continuano a sorvolare a bassa quota la città. Ma la paura, almeno quella, sta abbandonando le strade di Baghdad.

Dopo mesi di terrore e di carneficine, la capitale irachena ha ripreso, guardinga, il suo respiro affannoso. Scuole e università funzionano, ristoranti, negozi e alcune rivendite di alcolici hanno riaperto, il bazar di Shorja è di nuovo affollato e in via Saadun il traffico è tornato caotico. Passeggiare è un privilegio non concesso agli stranieri: dai bunker della Zona verde i diplomatici emergono di rado, in convogli armati; e i pochi giornalisti, se non hanno una scorta privata, devono cercare di mimetizzarsi. Il rischio di rapimenti è ancora altissimo, ma avventurarsi nella Zona rossa non è più un suicidio.

Le autobombe che dilaniavano dozzine di poliziotti e civili sono ora un’eccezione. I cecchini sono spariti dai tetti. E anche se di notte i kalashnikov si fanno sentire, la faida interreligiosa sembra per il momento cessata. Gli attacchi contro le forze americane sono diminuiti del 55 per cento attestandosi ai livelli del gennaio 2006, prima della distruzione della moschea sciita di Samarra, scintilla della guerra confessionale.
Gli attacchi kamikaze sono calati da 59 a 16 tra marzo e ottobre. E al principale obitorio della capitale, fino a poco tempo fa sommerso da un flusso ininterrotto di cadaveri orrendamente mutilati, le celle frigorifere sono semivuote: la media è scesa a meno di una decina al giorno.

Se non è più un inferno, Baghdad è però ancora un angosciante purgatorio, un infido campo di battaglia. Il bollettino di guerra di sabato 1° dicembre riporta cinque corpi non identificati rinvenuti nelle discariche di immondizia, tre poliziotti e tre civili assassinati, un militare americano morto per lo scoppio di una mina e 63 vittime nel resto del paese, tra i quali 16 contadini uccisi e 20 sequestrati da Al Qaeda nei pressi di Baquba, due poliziotti abbattuti a Mosul e 20 cadaveri scoperti in una fossa a Fallujah.

Nel 2007 il «body count» americano, il conteggio dei cadaveri, ha già raggiunto quota 879, superando ogni record degli anni precedenti (il totale dal 2003 ammonta finora a 3.882 caduti), ma in ottobre si sono registrate solo 40 vittime tra i marines e 800 tra gli iracheni: la cifra più bassa dal marzo 2006.
I militari, più cauti dei politici, non cantano vittoria. «La situazione è migliorata» avverte il generale Joseph Fil, comandante della piazza di Baghdad, «ma Al Qaeda non è ancora sconfitta». Eppure, anche sul piano politico qualcosa si muove. In novembre è stata chiusa l’Associazione degli ulama sunniti della moschea Umm al-Quraa, nota per il suo atteggiamento ambiguo nei confronti della guerriglia.

Trecentomila sciiti hanno firmato una petizione che condanna le ingerenze di Teheran. E nei cavernosi saloni dell’hotel Rashid gli sceicchi della provincia di Diyala, sunniti e sciiti, cercano per la prima volta di individuare una strategia comune per combattere il terrorismo. Non è poco, se si pensa che fino a ieri discutevano a colpi di lanciagranate.
Anche i profughi stanno rientrando. Non è il controesodo strombazzato dal governo, agevolato da servizi gratuiti di pullman e incentivi in denaro. L’Onu calcola 20 mila rimpatri su oltre 4 milioni di rifugiati. E quasi tutti costretti a lasciare la Siria per ragioni economiche e per le restrizioni ai visti imposte da Damasco. Però resta comunque un segnale.
Il «surge», l’invio di 30 mila militari di rinforzo deciso in gennaio dalla Casa Bianca, ha restituito un po’ di fiducia, e un po’ di vita, ai 5 milioni di abitanti della martoriata capitale. Il generale David Petraeus, comandante delle forze Usa in Iraq, ha fatto uscire i suoi uomini dalle caserme e li ha schierati in 29 postazioni all’interno di Baghdad.

Le strade sono costantemente pattugliate da militari appiedati e dai poderosi blindati Stryker. E i posti di blocco della polizia irachena si sono moltiplicati, rendendo più arduo il transito delle autobombe. La sicurezza è aumentata: soltanto il 13 per cento della città è considerato off limits.
Altre due componenti hanno contribuito al successo: la tregua proclamata in agosto da Muqtada al-Sadr e gli accordi conclusi da Petraeus con i leader delle fazioni sunnite. Ma sono fattori ad alto rischio.
L’Iran, che ha convinto Muqtada a sospendere gli attacchi dell’Esercito del Mahdi e ha tagliato le forniture di armi alla guerriglia, potrebbe ripensarci in assenza di contropartite sul tema nucleare. E le milizie reclutate da Petraeus, in un paese traumatizzato dalla pulizia etnica, rischiano di trasformarsi in un nuovo strumento del terrore. Gli accordi con i sunniti, sperimentati con successo nella provincia di Anbar e battezzati al-Sahwa, il Risveglio, si sono estesi alla capitale: le sconfitte subite nella guerra confessionale, e i dollari di Washington, hanno persuaso i leader nazionalisti che la loro sopravvivenza può essere garantita soltanto da un’alleanza con gli americani.

Matrimonio a Baghdad

Da «insurgent», che uccidevano nel nome di Osama Bin Laden, 80 mila ex combattenti dell’Esercito dell’Islam sono diventati «concerned local citizens», cittadini consapevoli, con uniformi, giubbotti antiproiettile, veicoli e stipendi (da 300 a 600 dollari) offerti dal Pentagono. Il loro apporto è stato determinante nella lotta ad Al Qaeda, sempre più emarginata, e nello smantellamento delle cellule infiltrate dalla Siria. In cambio, si sono ripresi mezza Baghdad, oggi balcanizzata lungo linee tribali e religiose in una miriade di enclavi segregate e difese dalle milizie dei locali warlord: l’Esercito del Mahdi negli slum di Sadr City, a Kadhimiya, Hurriya e Shu’ala; le Brigate al-Badr di Abdelaziz al-Hakim a Jadriya; i Cavalieri dei due fiumi e i Freedom fighters nei distretti sunniti di Adhamiya, Yarmuk e Amariya.

La vita, in superficie, sembra scorrere quasi normalmente. In Rashid street sono riapparse le bancarelle dei libri. Sul lungofiume Abu Nawas, sorvegliati da un plotone di marine, i ragazzi giocano a calcio e un paio di ristoranti servono il «masgouf», la carpa del Tigri arrostita sulla brace. A Karrada i furgoni scaricano i generatori importati dalla Giordania. E nel parco di Zahwra i bambini si divertono sull’ottovolante. Ma nessuno si allontana dal proprio quartiere.
Raad Sattar, pensionato dell’esercito che ha passato 9 anni nelle prigioni iraniane, frequenta solo i suoi vicini di Jadriya: «Meglio non rischiare» dice. Sua moglie Montaha, insegnante di matematica, esce solo per andare a scuola, a due isolati di distanza. Il figlio Mohammed, 16 anni, non ha il permesso di allontanarsi dalla sala giochi sotto casa dove passa il weekend incollato alla console. Gli spostamenti sono complicati.
I viali di scorrimento sono strozzati dai posti di blocco e dalle barriere antikamikaze. Ci vogliono 2 ore per raggiungere l’enclave sunnita di Amariya. Il quartiere (25 mila abitanti) dove la scorsa primavera Al Qaeda annunciò la nascita dello «stato islamico» è circondato, come altri distretti sunniti e sciiti, da una muraglia di blocchi di cemento alti 3 metri, installati dagli americani per impedire le incursioni degli squadroni della morte.
L’unico accesso, consentito ai residenti muniti di speciali permessi, è presidiato dai cavalieri di Abu Abed, ex membro dell’Esercito dell’Islam, il gruppo responsabile dell’omicidio di Enzo Baldoni. Abu Abed governa con il piglio e la determinazione di un boss mafioso: dentro le mura del suo feudo ha trasformato il killing field più insanguinato di Baghdad in un’oasi di assoluta sicurezza. «Ma cosa accadrà quando gli americani se ne andranno?» si chiede Bilal, uno dei pochi sciiti rimasti ad Amariya.
Il governo di Nuri al-Maliki non ha saputo risolvere questioni decisive come la ripartizione dei proventi petroliferi, lo status di Kirkuk, la definizione dei confini regionali. E tutti sanno che il 2008 sarà un anno cruciale. Il mandato della forza multinazionale non sarà rinnovato oltre dicembre e l’impegno militare degli Stati Uniti, chiunque salirà alla Casa Bianca, è destinato a cambiare: entro Natale è previsto il ritiro dei primi contingenti dalla provincia di Diyala.
Il cessate il fuoco dell’Esercito del Mahdi scade in gennaio. E molti iracheni sospettano che la temporanea sospensione dei combattimenti sia una tattica per guadagnare tempo in attesa del ripiegamento americano: jihadisti di Al Qaeda, milizie sunnite e seguaci di Muqtada si starebbero armando e riorganizzando per la conclusiva resa dei conti.

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