(Gian Enrico Rusconi - La Stampa) E’sconcertante quanto sta accadendo nel Partito Democratico in tema di laicità. Pare che si debba chiedere scusa di essere laici. O se ne abbia un’idea molto povera. L’enfasi con cui si riconosce alla Chiesa il diritto di esprimersi nella sfera pubblica suggerisce che l’essere laico sia una faccenda privata, scarsamente significativa. Che il pubblico debba essere gestito in esclusiva secondo le direttive della Chiesa. Tutto questo non solo è sbagliato, ma rivela un impoverimento della cultura che si dice laica.
Per cominciare, la laicità è un’espressione eminentemente pubblica. Si è laici non semplicemente per sentire personale, ma perché ci si impegna a favore di un ordinamento pubblico che garantisce a tutti - credenti, non credenti e diversamente credenti - il diritto di orientare autonomamente e serenamente la propria esistenza. Compresi i rapporti interpersonali che si manifestano nelle diverse forme delle unioni familiari. Naturalmente è un diritto che non interferisce o ferisce il diritto degli altri - anche e soprattutto se si è in maggioranza. In questo senso la laicità coincide con l’essenza stessa della politica democratica.
È incredibile che si debbano ricordare queste cose al Partito Democratico, nella stesura della sua Carta fondativa, prima ancora di entrare nei dettagli delle singole questioni.
Il laico oggi si trova davanti a tre compiti. Deve innanzitutto ribadire il principio secondo cui il credente può introdurre nel discorso pubblico e quindi nella deliberazione politica soltanto tesi che non disconoscono e non limitano l’autonomia di giudizio e il comportamento degli altri cittadini, che hanno convinzioni diverse o contrarie alle sue. Naturalmente vale anche il reciproco. Ma quando il credente si atteggia, talvolta, a vittima e protesta di essere discriminato nell’esercizio del suo diritto di costruire una «società buona» secondo i suoi criteri, dovrebbe ricordare che l’edificio legislativo della nostra società democratica non lede in nulla l’autonomia, la libertà di espressione, di pratica e di testimonianza del suo credere.
Ma il laico si trova davanti a un altro compito più impegnativo: deve sviluppare un discorso pubblico che è dotato di forza persuasiva ed efficace pari a quella dei suoi interlocutori. Deve falsificare l'inconsistente obiezione che la laicità sia, nel migliore dei casi, soltanto una procedura o un metodo, mentre la religione offrirebbe contenuti sostantivi di senso. Va fermamente respinto il luogo comune che la laicità favorisce l’individualismo anziché il solidarismo; che impoverisce anziché arricchire i rapporti umani. È una pura sciocchezza scambiare come indifferenza il pudore del laico, che non sente il bisogno di usare le retoriche del senso, tanto care ai clericali.
In terzo luogo il laico deve contrastare la tendenza di rinchiudersi in forme di cittadinanza comunitarista, che fa appello a tradizioni o radici univoche. Il laico deve far valere il principio universalistico della cittadinanza costituzionale. Il problema della laicità in Italia oggi non riguarda soltanto la riconferma dei grandi principi del pluralismo, ma l’affermazione di una cultura che dà sostegno concreto alla cittadinanza costituzionale.
Questa è la democrazia laica, nel senso che quando in essa si manifestano credenze e convinzioni incompatibili tra loro, ai fini dell’etica pubblica e delle sue espressioni normative, non decidono «verità sull’uomo», ma le procedure democratiche che minimizzano il dissenso tra i partecipanti al discorso pubblico. «La verità» - se vogliamo usare questo concetto impegnativo - consiste nello scambio amichevole di argomenti nella lealtà reciproca. Chi accetta questo atteggiamento e ragionamento è laico. Chi non lo accetta e lancia contro di esso l’accusa di relativismo, non solo non è laico, ma usa il concetto di relativismo come una parola-killer che uccide ogni dialogo.
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