Italo Moscati è tra i relatori dell’incontro di domani organizzato dal Corecom.
Moscati è tra i relatori del convegno «Tv locali e territorio - Un feedback per lo sviluppo», organizzato dal Comitato regionale per le comunicazioni d’Abruzzo, che si aprirà domani, martedì 30 ottobre alle 10, nell’auditorium Petruzzi di Pescara (si veda la scheda dettagliata con il programma in basso).
L’autore e docente universitario ha rilasciato al Centro l’intervista che segue.
Il suo intervento al convegno organizzato dal Corecom Abruzzo si intitola «Qualità tv, un tema astratto?», e quel punto di domanda è tutto un programma. Ma si può fare la tv di qualità?
«Non c’è dubbio che c’è poca voglia di rischiare. La tv corre il rischio che il cinema ha corso e perduto negli anni scorsi. Quando si trovava un filone di successo e lo si faceva arrivare all’esaurimento per sfinimento (anche la commedia all’italiana ha subito questo processo). La tv, per esempio, usa molto la fiction, come fossero i vecchi sceneggiati. Va benissimo allora realizzare “Guerra e pace”, ma forse servirebbe qualcosa di più vicino ai tempi. All’opposto, ormai, nel ron ron che ci prende quando siamo davanti alla tv sono finiti i diverbi, gli scontri, i conduttori che vogliono scandalizzare a ogni costo, i personaggi che vengono affittati per aprire degli inutili diverbi su elementi inconsistenti. Anche nel cinema c’erano film con temi semplici, ma dietro di loro non c’era questo sbadiglio, c’era qualcosa che, a distanza di anni, li rende curiosi, interessanti. Adesso noi guardiamo la tv in bianco e nero come fosse pedagogica, ma all’epoca prendeva critiche feroci, da Pasolini in poi. Mi ricordo, tra gli altri, spettacoli che ora sono di culto, Studio 1, i programmi del Quartetto Cetra, che all’epoca venivano considerate delle sciocchezze».
Cosa accadrà nella tv del futuro?
«Non lo sappiamo. Ma oggi scontenta sempre di più. Nella moltiplicazione dei canali non sappiamo se è il mezzo nel suo complesso a perdere colpi o sono i singoli canali né quali di questi. La guerra degli ascolti premia una volta la Rai, quasi sempre, e una volta Mediaset».
Ma cos’è la qualità in tv?
«Nessuno lo sa più e lo vorrei sapere anch’io. Io potrei dire la qualità è uno spettacolo di Strehler, di Ronconi, un concerto di Karajan. Ma in tv la qualità non è garantita dalla trasmissione che è sgarbata, brutale, sbrigativa. Quella qualità viene sciupata. La qualità del cinema appartiene al singolo film, ma la tv sta tra l’informazione e il commento. La Bbc, anni fa, decise di fare un intervento di fiction storica e inventò la situazione in cui un cronista, con strumenti di oggi (microfono e telecamera), entrava in una battaglia tra scozzesi e inglesi. Si potrebbe riportare in Italia? La qualità è come usiamo la tv. C’è bisogno di formule innovative e lasciar cadere quelle che sono troppo ripetitive. Prendiamo il reality: io non ho pregiudizi, in fondo è un’idea che si rifà un po’ a quello che diceva Zavattini: “Prendete una persona, fatela camminare, mettetele una cinepresa dietro e vedrete che lì c’è una storia”. Il problema è che una volta trovato un filone buono poi lo si ripete all’infinito e si rischia di sfinire il telespettatore».
A cosa sta lavorando in questi giorni?
«Ho appena finito “Tv posto di polizia”, è un progamma sul racconto di tutti gli investigatori che sono apparsi nella fiction con il commento degli investigatori veri. Si comincia all’inizio della tv, da Maigret, e si arriva a “Distretto di polizia”. Inoltre, ne sto preparando un altro sulle donne».
Lei ha sceneggiato un film che è entrato nella storia del cinema: «Il portiere di notte» di Liliana Cavani. Che esperienza è stata?
«Sbalorditiva. Il soggetto che aveva scritto Liliana era interessante, dirompente, portava delle problematiche molto nuove, forse ardite per i primi anni Settanta. Man mano che lavoravamo a questa cosa eravamo convinti di aver realizzato un progetto che poteva sollevare discussioni anche pesanti. Che poi ci sono state. E’, come si dice oggi, diventato un cult, ma noi non ce lo aspettavamo».
Gli autori delle sceneggiature sono alquanto bistrattati in Italia, non trova?
«Il nostro sistema è fondato sul regista. Nei film degli anni Cinquanta e Sessanta, per esempio, si trovano molti sceneggiatori. Era un cinema basato sulla collaborazione tra autori, poi il regista girava cosa decideva lui. A poco a poco, dalla Francia è arrivata la politica degli autori ed è arrivata la dicitura film scritto e diretto da... In questo sistema un grande autore come il pescarese Ennio Flaiano ha patito moltissimo. Fellini senza Flaiano probabilmente non avrebbe fatto i film meravigliosi che ha firmato, ma il sistema italiano è quello che è. Pensi che di molti sceneggiatori non esiste alcun tipo di registrazioni, perché nessun giornalista li andava a intervistare. Non abbiamo più le loro voci. Io ricordo proprio a Pescara, durante un premio Flaiano, una invettiva di Tonino Guerra a proposito del fatto che gli sceneggiatori non parlano e non vengono ascoltati. “Io non voglio prendere il posto del regista”, diceva Tonino Guerra, “ma ascoltateci”. Il nostro cinema, oggi, ha pochi sceneggiatori, pochissimi soggettisti e una quantità incredibile di registi. A differenza di ciò che accade negli Stati Uniti. Penso che il regista abbia il diritto di intervenire sulla sceneggiatura ma è questa che sta alla base del film».
Lei ha conosciuto Flaiano, che ricordo ne ha?
«Di una persona unica nel suo genere. La cultura di quei personaggi era tale che ogni uscita non era la rissa, come oggi, ma la battuta, la frase scanzonata. Erano personaggi che non ci sono più, che erano meditativi ma stringenti, guizzanti di pensiero. Mancano molto, oggi, queste menti, queste penne».Sphere: Related Content
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