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sabato 29 dicembre 2007

Il velo: un simbolo che unisce (e divide) arte, eros e sacralità.

(Panorama) In un luogo come un ex filatoio di seta, diventato splendido spazio espositivo, cosa ci poteva esser di più attinente che una mostra sul velo? Tessuto di impalpabilità e purezza come il velo delle spose, trama pesante e oscura, se si pensa al burqa, o mantello di blu celestiale sul capo della nostre Madonne classiche, fascinosa eleganza del sari indiano. Un viaggio nella storia di questo indumento così strettamente legato alla femminilità è quello che ci offre la mostra Il Velo nel Filatoio di Caraglio, in provincia di Cuneo, aperta fino al 24 febbraio 2008.

La rassegna è curata da Andrea Busto, e ha un catalogo, pubblicato da Silvana editoriale, che riporta oltre agli interventi più strettamente critici testimonianze di Khaled Fouad Allam, Elena Loewenthal, Igor Man, Younis Tawfik e suor Giuliana Galli.
Un solo indumento, un accumularsi di riflessioni, storiche, politiche, religiose, antropologiche, soprattutto oggi nella controversa disputa sul chador, visto da un lato come strumento di repressione della donna nel mondo islamico, dall’altro proposto come scelta consapevole di valori, in un’epoca di crisi della laicità. Un semplice impalpabile velo fa da spartiacque fra culture e modi di vivere, come il velario di un sipario divide il pubblico dallo spettacolo, ed è proprio dal valore metaforico del velo che inizia la mostra sviluppata in sette sezioni, sette come i teli lievi di tulle che lentamente sfila Salomè nella sua danza davanti ad Erode, tessuti di inconsistente trasparenza che racchiudono il cuore dell’eros.
Dalla prima sezione, dedicata alla tecnica della velatura, quel sovrapporsi di strati del colore per permettere all’occhio di percepire una finta omogeneità cromatica del quadro, si passa alla Memoria e alla traccia che si lascia su un velo, come quello della Sacra Sindone. Il sudario in questo caso s-vela tracce di corpi e di dolore. Christian Boltanski imprime su teli, mediante proiezioni, i volti degli ebrei morti nei campi di concentramento tedeschi e polacchi. Janieta Eyre si avvolge in un lino macchiato e abbandonato su un tavolo, pronto per la dissezione di una lezione di anatomia.
Dalle tracce organiche di morte su telo, al velo da sposa: puro pizzo quello del matrimonio di Grace Kelly; velo candido nei riti religiosi della comunione e del noviziato. Si passa poi alle immagini dell’iraniana Shirin Neshat, fotografa che vive tra New York e il suo paese. La sua donna dal corpo velato, fa sentire come lì sotto quel telo non ci sia solo uno stereotipo femminile, ma un corpo di carne sensibile, al di là del diaframma dei pregiudizi.
Il velo come Soglia di attraversamento è quello proposto da Gonzalez-Torres poco tempo prima di morire di Aids: una tenda di perline, gocce di sangue che uniscono i due spazi nei riflessi.
Nella successiva sezione, dedicata ad Eros e Thanatos, amore e morte sono avviluppati nella foto di Isadora Duncan danzante sul Partenone, seminuda e velata. Le due ultime sezioni Occidentalismi e orientalismi e il Velo globale ci fanno viaggiare nell’esotismo visto con gli occhi dell’Occidente: dall’acquaforte di Picasso Conquistatore e donna marocchina del 1970, a Senza titolo (Burqa) del 1999 di Luisa Valentini, una scultura in lattice, cotone su un manichino metallico: un tappeto più che una donna. Dal grottesco all’arabesco.

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