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lunedì 3 dicembre 2007

Francesco Vezzoli: sono un bastardo molto amato.

(Manuela Grassi - Panorama) Occhioni scuri nell’ovale pallido, alto e sottile fino all’evanescenza, a 36 anni Francesco Vezzoli è l’artista più in voga e chiacchierato del momento. All’ultima Biennale di Venezia ha messo in scena, l’un contro l’altro armati, Sharon Stone e Bernard-Henri Lévy, candidati alla presidenza degli Stati Uniti nel video Democrazy. Ha appena trasformato il Guggenheim di New York in una sorta di palasport dove celebrità come Cate Blanchett si sono esibite in una performance ispirata a Luigi Pirandello.

L’evento, 5 ore, ha messo a dura prova la crème di Manhattan, ma il magazine del quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung gli ha dedicato il numero speciale che ogni anno dal 1999 consacra un artista, da Anselm Kiefer e Francesco Clemente a Matthew Barney, per citarne alcuni.
A gennaio Vezzoli partirà per Los Angeles, dove sarà artista residente all’Hammer Museum per diversi mesi. Là dovrebbe prendere forma l’ambizioso Kinsey International sulle abitudini sessuali degli americani, prodotto, come altri suoi precedenti lavori, dalla Fondazione Prada.
Francesco viaggia leggero, non ha casa, non ha studio, gli alberghi dove passa lieve sono pagati dai suoi galleristi, dai suoi sponsor potenti, gli bastano, dice, “alcune valigie sparse per il mondo, ritagli di giornale e un pc”.

Francesco Vezzoli, l’incarnazione stessa dell’effimero.
Tutta la mia opera è uno studio dell’aspetto effimero della vita. I miei ultimi quattro lavori sono il pilot di uno spettacolo che non esiste (Comizi di non amore, prodotto dalla Fondazione Prada), un trailer per un film che non c’è (Marlene redux: a true Hollywood story, commissionato da François-Henri Pinault), una finta campagna elettorale per candidati fittizi (Democrazy, Biennale di Venezia e Unicredito), la prima di uno spettacolo teatrale inesistente (Così è se vi pare, sponsor galleria Gagosian).

Ma i suoi attori sono reali, celebrità in carne e ossa. Ne sembra ossessionato.
Un conto sono le mie passioni private, un conto quello che, di queste passioni, riverso nel mio lavoro. Se credessi che all’interno del dibattito artistico oggi la cosa che conta è tracciare una riga nera su un foglio bianco, farei quello, poi passerei il mio tempo a leggere ¡Hola!, Chi, Vogue, a guardare i servizi fotografici di Steven Meisel. Nel nostro mondo l’attenzione ossessiva alla celebrità ha una rilevanza della quale si deve parlare. Mi piace pensare di essere uno specchio, non so se sto facendo dell’arte o meno, ma parlo di qualcosa che rispecchia la realtà di oggi.

Anche la sua immagine compare sempre: delirio narcisistico?
Sono stato il primo a dichiarare il mio narcisismo in maniera sfacciata, per esempio in Francesco by Francesco (una serie di ritratti di Vezzoli che citano lo stile del famoso fotografo Francesco Scavullo, ndr); quindi mi sono coperto le spalle. Tutto il mio lavoro si basa sulla dinamica guardare-essere guardati, non dimentichiamo il narcisismo degli attori che lavorano con me. Perché altrimenti accetterebbero?

Se lo chiedono tutti.
La domanda mi mette sempre all’angolo. Rispondo che mando dei bellissimi fiori, è vero, e non ci crede nessuno. Devo dire che i miei progetti sono belli? Forse questi divi, in tutta la loro magnificenza, trovano le mie proposte inusuali, e l’impegno che richiedo dura solo un giorno, perché ho un’unità di misura da tragedia greca. Insomma, è come per certe foto di Helmut Newton, ti chiederai sempre perché Jean-Marie Le Pen ha accettato di farsi fotografare con i dobermann, o Charlotte Rampling nel remake del suo massimo splendore. Con Newton c’era sempre un pericolo nell’aria, ti chiedeva cose sconvenienti.

Anche lei chiede cose sconvenienti ai suoi protagonisti?
No, ma li pongo dentro un contesto che altera la percezione classica che il pubblico ha di loro. È un po’ quello che è successo al Guggenheim. Metti dieci grandi attori su un palcoscenico e falli leggere guardandosi in faccia un testo che di per sé non ha senso… sono sculture viventi su un enorme podio. Forse è la stessa dinamica del pittore di corte, forse io sono un pittore alla corte delle celebrity. Però ci sono artisti di corte che hanno fatto capolavori… no, questa non la dica che sembro arrogante.

In Marlene redux: a true Hollywood story i testimoni che commentano (per finzione) la sua triste fine la definiscono “pushy little shit”, un piccolo sgomitatore. Un’autocritica?
Il primo a credere nel mio lavoro è stato il regista inglese John Maybury, vivevo a Londra e volevo che dirigesse il mio video d’esordio, con Iva Zanicchi. L’ho tormentato. A un certo punto gli chiesi perché aveva accettato, lui mi disse: “Pushy little shit”. L’ho trovato molto divertente. Sì, quando desidero fortemente la presenza di qualcuno nel mio lavoro posso essere molto insistente. Crocifiggetemi!

A Gore Vidal è ispirato il suo video Trailer for a remake of Gore Vidal’s Caligula.
Gore Vidal rappresenta ai miei occhi la possibilità di essere nello stesso tempo: a) omosessuali; b) di avere una fortissima identità politica; c) di essere glamorous, e il tutto con grande dignità.

Altri esempi di glamour?
Pier Paolo Pasolini, anche se in modo perverso. Il glamour per me è impatto mediatico. Oggi siamo abituati a pensare che Gisele Bündchen sia glamorous. Sbagliato: Vidal, Cuccia, Miuccia sono glamorous, il mistero è glamorous, non Gisele.

La sua passione per le celebrities evoca padri nobili come Truman Capote e Andy Warhol, che erano mondanissimi nel privato.
Ho un tale culto di Warhol che non voglio neppure nominarlo. Va detto che entrambi avevano un fortissimo bisogno di appartenenza, perché a quei tempi la loro sessualità non era accettata. Oggi l’omosessualità è un fatto normale, o almeno io do per scontato che lo sia.

Quindi lei non è mondano, non vuole frequentare le sue celebrità?
A me dei salotti non importa niente. Sono un bastardo, vado a incontrare qualcuno che voglio coinvolgere in un mio progetto, ma quando quello scambio è finito preferisco stare a casa a guardare la televisione. Tutto il mio desiderio, la mia vanità, la mia ambizione sono dentro il mio momento, sul palcoscenico del Guggenheim, per esempio.

Pensa di mettere dei nomi famosi anche nel progetto Kinsey?
Potrei fare un red carpet di scienziati, di grandi cervelli.

Ha detto che tra i suoi progetti c’è l’idea di coinvolgere il balletto del Bolscioi in una performance, di produrre un’opera. E perfino di occuparsi di archeologia: che cosa intendeva?
Herbert Muschamp, che era il critico del New York Times e stava per essere nominato curatore dell’architettura al Guggenheim, ma purtroppo è scomparso prima, mi aveva parlato di un suo progetto bellissimo: riunire tutte le sculture di Antinoo (il giovane amato da Adriano, ndr) esistenti al mondo. Io ho reagito immediatamente dicendogli che era un modo di leggere la storia della scultura classica in chiave seriale, warholiana. Se un giorno avrò il potere, vorrei vedere tutto il Louvre o la Galleria Borghese pieni di Antinoo.

La sua serata al Guggenheim è stata anche molto criticata.
Ognuno non l’ha capita a modo suo. Ho voluto ricreare l’isteria di un evento newyorkese, uno specchio attraverso Pirandello, che delle deformazioni della vita borghese è uno dei maestri narratori. Il museo è stato trasformato in “Palaguggenheim”, con luci tipo concerto rock. Ho coperto la fontana e sopra ci ho messo un divano di Salvador Dalí con Anita Ekberg, spettatrice regina, un’operazione surreale. Il pubblico era sia sotto che sopra nei tornanti, è successo che i vip vedevano le spalle degli attori mentre il pubblico normale li vedeva in faccia, bel contrappasso dantesco. E poi è successo che tutte le celebrities hanno dovuto aspettare, fare la coda, perché eravamo in ritardo. E le telecamere che riprendevano tutti. A me è parsa una figata pazzesca!

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