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martedì 2 ottobre 2007

In Italia un detenuto su tre colpito da epatite C.

Franceschini (presidente S.I.M.S.Pe.): ''Servono più fondi dallo Stato'' .
A lanciare l'allarme sono i medici della Società italiana di Medicina e Sanità penitenziaria, intervistati dalla Gfk-Eurisko per un'indagine effettuata in 25 carceri della Penisola.

Adnkronos Salute) - Non solo Aids, tubercolosi, suicidi e disturbi psichici. Nelle carceri italiane il pericolo arriva anche dall'epatite C: un detenuto su tre è infatti colpito da questa malattia. A lanciare l'allarme sono i medici penitenziari della Società italiana di Medicina e Sanità penitenziaria (S.I.M.S.Pe.), intervistati dalla Gfk-Eurisko per un'indagine effettuata in 25 istituti della Penisola. I risultati sono stati presentati oggi a Roma, alla vigilia del Congresso S.I.M.S.Pe. che si svolgerà nella Capitale da giovedì a sabato.

Il tempo di permanenza media di un detenuto in carcere è oggi di 120 giorni: un periodo troppo breve che non permette ai medici di curare a dovere l'epatite C dei loro pazienti. Solo la metà dei detenuti viene subito inserito all'interno di un trattamento di cura. Un terzo dei pazienti, invece, sospende la terapia prima del previsto, e molto spesso questo avviene perché il detenuto esce dal carcere. "E' questo uno dei problemi più grandi che dobbiamo affrontare - sottolinea Andrea Franceschini, presidente S.I.M.S.Pe. e direttore sanitario del Regina Coeli di Roma - poiché l'entrata e uscita continua dei detenuti non ci permette di curare come vorremmo questi pazienti". In carcere non si riesce quindi a garantire un'assistenza sanitaria adeguata.

Franceschini chiede "più fondi dallo Stato per la medicina penitenziaria in Italia" sottolineando che "negli ultimi dieci anni, anche a causa dell'indulto, i finanziamenti sono stati tagliati anche del 40%". "In Italia abbiamo un regolamento penitenziario all'avanguardia - ammette il direttore sanitario di Regina Coeli - eppure per quanto riguarda l'assistenza sanitaria siamo ancora in ritardo rispetto ad altri Paesi. In Francia lo Stato si interessa molto a questi problemi, mentre noi ci sentiamo abbandonati dai ministeri della Salute e della Giustizia".

"Sovraffollamento, scambi di oggetti, rapporti omosessuali e tatuaggi effettuati con misure igieniche pessime - spiega Roberto Monarca, dirigente medico di primo livello all'ospedale Belcolle di Viterbo - agevolano la trasmissione e la concentrazione di malattie infettive".

Dall'indagine Gfk-Eurisko emerge anche che il 62% dei detenuti ha una patologia che necessita di un intervento medico, e fra questi il 43,5% soffre di disturbi psicologico-psichiatrici. Eppure il problema sembra ancora poco considerato da Istituzioni, media e opinione pubblica. "In quanto cittadino italiano dispiace dirlo - confessa Giulio Starnini, primario di Medicina penitenziaria all'ospedale Belcolle di Viterbo - ma nel nostro Paese il carcere ha uno scopo solo punitivo, e non rieducativo. Abbiamo un regolamento che prevede la disponibilità dell'acqua calda per tutti i detenuti, ma purtroppo questa è solo utopia".

Il 37% dei detenuti nelle carceri della Penisola è di nazionalità straniera, e la fascia d'età più presente è quella tra i 30 e i 34 anni. Gli atti di autolesionismo sono ormai all'ordine del giorno, anche se in leggero calo dal 2001 quando ci fu il record di suicidi (69 casi). Eppure, per migliorare la situazione, si fa ancora troppo poco. "I nostri numeri non sono degni di un Paese occidentale sviluppato - conclude Starnini - facciamo ancora troppa poca prevenzione per i tanti tossicodipendenti che popolano le nostre carceri, e anche gli ospedali psichiatrici giudiziari non sono strutturati come dovrebbero".

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