(Marco Boccitto - Il Manifesto) Thomas è gay. Nell'avanzato Sudafrica sperava di trovare riparo anche dagli insulti e dalle violenze quotidiane a cui era abituato, ma non conosceva ancora l'orgoglio machista degli zulu.
Nel campo improvvisato all'interno della stazione di polizia di Cleveland, una ragnatela malferma di teli di plastica che occupa per intero il cortile su cui si affaccia il dormitorio degli agenti, si respira un'atmosfera tutto sommato serena.
Sarà per il tiepido sole invernale che scalda le ossa dopo le piogge e il freddo intenso dei giorni scorsi, sarà per l'arrivo di nuovi operatori della Croce rossa e di altri riservisti della polizia con le loro pettorine gialle, che cercano di darsi da fare come possono. O sarà semplicemente che il peggio è passato. Almeno così sembra alle 1700 persone che hanno trovato rifugio qui. Tra loro ci sono 70 donne incinte e 160 bambini. E stupisce vedere come i piccoli, solitamente anarchici e indipendenti, se ne restano appiccicati alle gonne delle mamme. Come sempre accade nelle tragedie, i loro disegni raccontano i fatti più e meglio di qualsiasi reportage. Ce n'è uno che dopo aver disegnato quello che ha visto nei giorni caldi delle violenze prova a raffigurare quello che vede adesso: una fila di panni stesi, perché nonostante l'area sia sovraffollata, si è riusciti comunque a organizzare anche uno spazio lavanderia.
Una fila lunga e ordinata si snoda verso i tavolini dove si procede a registrare gli sfollati, quasi tutti privi di documenti. Vengono prese le generalità e le impronte digitali, viene assegnato un numero. Al polso di quelli che decidono di non far rientro nel loro paese viene applicato un braccialetto azzurro, tipo quelli dei villaggi-vacanza, con la scritta «Cleveland». Ne esibisce uno anche Thomas, 19 anni, da Bulawayo, seconda città dello Zimbabwe. «Ho deciso di venire qui circa un anno fa - racconta - dopo aver perso entrambi i genitori. I miei fratelli, che hanno un padre diverso dal mio, mi hanno buttato fuori di casa dicendomi di tornare solo se trovavo i soldi per comprare una lapide da mettere sulla tomba di nostra madre». Thomas è gay. Nell'avanzato Sudafrica sperava di trovare riparo anche dagli insulti e dalle violenze quotidiane a cui era abituato, ma non conosceva ancora l'orgoglio machista degli zulu. «Sono entrati nel negozio di parrucchiere in cui lavoravo come garzone armati di machete, hanno ucciso il mio boss e hanno appicato il fuoco a tutto gridando frasi oscene contro gli stranieri e gli omosessuali. Sono vivo per un pelo». Non tornerà a casa, per ora, perché nonostante tutto spera ancora di rifarsi una vita da queste parti.
In giro non ci sono scene di disperazione ma solo tanti occhi rossi e una grande, dolente compostezza. In realtà motivi per agitarsi ce ne sarebbero, eccome. «Ci hanno appena detto che il campo sarà smantellato entro un paio di giorni - dice Felix, anche lui zimbabwano però di Harare, la capitale -, ma nessuno sa dirci dove ci porteranno. Sappiamo solo che il posto prescelto dista una cinquantina di miglia». Nel paese da sei mesi, aveva appena trovato impiego come supplente di geografia e matematica in una scuola secondaria. «Ora rischio seriamente di perdere il posto, ma non ho scelta, non posso tornare a casa così, senza nulla». Poco più in là Frankie, professione muratore, 26 anni, tiene una bambina di sei mesi in braccio mentre sua moglie è andata in cerca di cibo. Punta il dito contro gli zulu, mentre i suoi amici annuiscono con l'espressione grave: «Sono tornati a ballare e a cantare nelle strade, con le lance e i costumi tradizionali, come ai tempi dell'apartheid... Stavolta però il nemico eravamo noi. Qui ci sentiamo abbastanza sicuri, ma il problema è che anche i poliziotti sono zulu e anche molti operatori umanitari, così restiamo un po' sospettosi».
Gli zimbabwani che stanno qui sono quasi tutti di etnia ndebele, ovvero parlano quasi la stessa lingua degli zulu. Ebbene è stato quel «quasi» a essergli fatale, una sfumatura di troppo nell'accento... Danny, un elettricista immigrato da ben 13 anni, finisce il racconto: «Gli assalitori chiedevano prima di dire qualcosa in zulu, poi iniziavano i pestaggi e i roghi».
Due donne che sembrano uscite dal nulla trasportano un pentolone di porridge. Ma nessuno si muove, perché è riservato ai bambini. I grandi ricevono qualche fetta di pane, fagioli in scatola e un po' di tè. Poco dopo riappare la madre della bimba con una scodella. Si chiama Marion e mostra le ferite che si è procurata sul palmo delle mani nel tentativo di ripararsi dalle bastonate. Anche lei è d'accordo nel restare: «Vedrai - dice - anche quelli che sono partiti torneranno, tempo due o tre settimane e saranno tutti di nuovo qui. Che la situazioni migliori o meno, non c'è proprio nulla che li trattenga a casa».
Ma se la situazione non migliora, nessuno sembra disposto a tornare alle proprie attività. Troppo fresco è il ricordo del modo in cui questa gente è stata cacciata dalle proprie case e dai propri negozi, che poi sono semplici chioschetti in legno e lamiera messi su alla bell'e meglio, per ipotizzare un ritorno alla normalità. Un cartello annuncia che alle 5 del mattino partono i bus per chi intende tornare in Zimbabwe. In quanti sono partiti? Risposta: nessuno, perché nessuno li ha visti quei bus. Tra 15 e 30 mila mozambicani hanno girato i tacchi e sono tornati al di là del fiume Limpopo. Ma per chi arriva dallo Zimbabwe è diverso. A casa hanno lasciato una quantità di problemi economici e politici, disoccupazione e fame, che finché qualcuno li protegge preferiscono restare. La cosa che colpisce è che tutti parlano sottovoce, come chi ha deciso di rompere un lungo silenzio. Un silenzio preceduto dalle grida di terrore della notte in cui ha perso i suoi beni, la casa, la dignità e qualche conoscente finito bruciato o con la testa spaccata. Gente che si è costruita onestamente quel poco che aveva, attraverso anni di duri sacrifici, e con una fiammata improvvisa ha perso tutto. C'è chi è qui da una settimana, chi da due. L'ondata xenofoba ha raggiunto Cleveland, appena dieci minuti di macchina dal centro città, solo in un un secondo tempo.
Un po' in disparte se ne sta un gruppo di congolesi. Sfogliano riviste sportive e ascoltano frizzante musica soukous da un piccolo registratore a cassette, quasi come se niente fosse. «I congolesi sono così - dice un poliziotto indicandoli -. Anche quando le circostanze sono drammatiche, la prima cosa che fanno è mettere su una discoteca». Patrick è scappato dalla regione del Nord Kivu in fiamme, è stato un po' a Kinshasa e poi ha puntato tutto sul Sudafrica. «Onestamente pensavo di essermi lasciato il peggio alle spalle, invece eccomi qui». Anche Emmanuel viene dalla Repubblica democratica del Congo, è calmo ma per niente rassegnato: «Finché qualcuno si prende la briga di proteggere le nostre vite noi restiamo. Se poi il governo riuscirà a sensibilizzare la gente che ci vuole cacciare via con una seria campagna contro la xenofobia - aggiunge - il problema verrà sicuramente risolto. Ci vorrà del tempo, ma noi siamo fiduciosi». Quando si dice l'afro-ottimismo.
Anche negli spot in onda alla tv, gli sponsor dei prossimi mondiali di calcio continuano a investire sul 2010, esaltando spassionatamente lo «spirito africano» dell'evento. Per fortuna non ci sono tv, nei campi.
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