(Hans Ulrich Obrist - La Stampa) Il critico e curatore di mostre svizzero Hans Ulrich Obrist ha più volte intervistato Sottsass. In questo articolo ci racconta le sue ultime riflessioni.
Per Milano, perdere Ettore Sottsass sarà come per New York è stato perdere Andy Warhol o per Roma perdere Alighiero Boetti. Milano senza Sottsass non sarà mai più la stessa città. È stato uno dei grandi inventori del ventesimo secolo. Designer, architetto, artista, fotografo...un protagonista impossibile da codificare in una unica disciplina.
Ho intervistato Sottsass tre volte. La prima volta per il mio libro Intervista, la seconda, insieme a Stefano Boeri e agli artisti Fischli e Weiss, per Domus, infine durante una conversazione pubblica per la Fiera di Basilea l’anno scorso. Queste tre conversazioni sono state tra le esperienze più straordinarie della mia vita: piene di sorprese, brillanti, esplosive. Conversazioni infinite, come diceva Blanchot.
Ettore mi spiegava la differenza tra l’architettura e le case: in ogni città, diceva, ci sono migliaia di case ma, se siamo fortunati, ci sono appena due o tre pezzi di architettura. L’architettura non è soltanto esteriore ma è il design di un luogo; «è qualcosa che quando tu ci entri, ti metti a piangere».
Abbiamo parlato dei suoi allestimenti visionari, realizzati lungo più di cinque decenni, come ad esempio il recente straordinario allestimento a Monaco per Pigozzi e la sua collezione africana. Oppure delle sue mostre. Ettore diceva che le esposizioni hanno giocato un ruolo fondamentale nella sua vita.
Ettore Sottsass era sospinto della curiosità per le realtà parallele su cui stava investigando e lavorando: design, fotografia, testi e progetti architettonici. Mi diceva sempre: «Sono curioso di provare tutto».
Una curiosità che spiega la sua passione per i viaggi. Lo ho spesso ascoltato mentre parlava dei suoi straordinari viaggi con Barbara Radice attraverso il mondo. Come quando percorsero un fiume nella Nuova Guinea, perché Ettore era affascinato dalla storia dell’uccello del paradiso e dal mistero di questo luogo dove ancora oggi si può trovare una cultura presitorica. Una volta mi raccontò del suo viaggio a Mosca e della sua visita alla tomba di Majakovski; della lunga ricerca della tomba di Malevic e del magico momento della sua scoperta.
Nelle interviste abbiamo parlato spesso del suo rapporto con la fotografia. «Ero curioso di provare la fotografia. Sono un fotografo dilettante, non professionista. Faccio queste cose perché amo farle.» Diceva Ettore: «Per me un viaggio è come una strana scuola dove posso imparare qualcosa, vedere qualcosa, dove le cose mi parlano».
O ancora abbiamo parlato di cosa sia stato Memphis. Ettore mi spiegava che ogni idea forte dura poco tempo. Il cubismo classico è durato pochi anni perché: «Le idee forti sono forti, scendono sulla terra come un fulmine». E mi parlava dei colori: «Nei primi anni ho utilizzato dei colori infantili, primitivi che poco a poco sono diventati più violenti, adesso che sono vecchio».
Nelle interviste abbiamo parlato di Bruno Munari e di Milano, del denaro svizzero, dell’astrazione di Max Bill, della vita, della società e delle relazioni tra l’individuo e la società. Abbiamo discusso del Rinascimento e della nuova visone del mondo, della nuova interpretazione della vita. Delle montagne e di Innsbruk e di Giovanni Segantini che diceva: «Voglio vedere le mie montagne». Abbiamo parlato di ateismo e della metafisica e del dubbio e del cosmo. Della cibernetica e di Olivetti e dei suoi colossali e primitivi computer. Di Jaques Tati e dell’umanità e della filosofia. E della cucina. Ma anche dei rituali sacri, del tempo e del cambiamento. E di Italo Calvino e di George Nelson e di Shiro Kuramata.
Ma abbiamo soprattutto e sempre parlato del disegnare, della sua ossessione per la pratica quotidiana del disegno. Per Ettore, disegnare era come scoprire; era, come dice John Berger, «misurare attraverso ritmi, masse e spiazzamenti le distanze e gli angoli. E sentire la pressione delle linee; quello che accade ad un uccello quando vola attraverso un albero o ad un marinaio quando sente la sua vela».
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