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martedì 6 maggio 2008

Dopo voto al Campidoglio. La caduta dell'impero romano.

Non solo l'addio al Campidoglio. Il voto di Roma segna la sconfitta della strategia di Veltroni. E il Pd ora rischia la disintegrazione della sua classe dirigente.

(Edmondo Berselli - L'Espresso) Il borgataro si stacca dalla festa in Campidoglio per Gianni Alemanno, stappa una birra e ti punta il dito nel costato: "Ahò, lo volevate er nuovo conio, mò beccatevelo". Per il Partito democratico, per Francesco Rutelli, per Walter Veltroni la serata romana di lunedì è il segno di una disfatta spaventosamente incomprensibile. È come se la capitale avesse deciso di sferrare un uppercut micidiale all'idea democratica, al progetto stesso del Pd: già, perché lo sconfitto è Rutelli, ma la batosta romana si ripercuoterà sul partito, sui suoi equilibri, forse sulla sua stessa esistenza.

Per il momento c'è lo choc tremendo di uno schianto politico inatteso anche nelle dimensioni, il rovesciamento clamoroso del risultato del primo turno, ma soprattutto un urto che fra molti saluti romani, clacson di tassisti entusiasti, cori di ultras, spazza via 15 anni di egemonia del centrosinistra, cominciati nella dura campagna elettorale del 1993, quella che aveva sdoganato Gianfranco Fini, e fa a pezzi il 'modello Roma', l'invenzione di Goffredo Bettini portata all'eccellenza mondana e planetaria da Veltroni, liquidando la Roma piaciona che aveva egemonizzato il gusto e anche il conformismo in società.

Il caos non è proprio calmo. La tranvata, sostiene immediatamente l'ala hard del Pd, i dalemiani che non hanno mai creduto ai lustrini, dimostra quanto fosse fragile la struttura del consenso raccolta dal sindaco uscente, quanto volatile la popolarità, quanto effimero il radicamento sociale, e alla fine quanto leggero e alla lunga irrilevante il clima capitolino fatto di attori, scrittori, registi, notti bianche, festival, intrattenimento, morettismi. Altrimenti non si spiegherebbe come mai in due anni sono evaporati oltre 20 punti di vantaggio, contraddicendo anche la tendenza generale del Pd, che alle politiche si è mostrato più competitivo nelle città e negli aggregati metropolitani.

Eppure, per restare al caso romano, la politica "lieve" e colorata di Veltroni era forse l'unico strumento capace di tenere insieme l'establishment e le periferie; non appena si è assistito al ritorno in campo di un candidato come Rutelli, interpretato come un uomo dell'establishment, anzi della 'casta' politica, è scattato il cortocircuito. Con distorsioni che devono essere ancora interpretate, e possono portare a vendette e regolamenti di conti, ma che per il momento rappresentano concretamente un attrito ineluttabile della scelta di Veltroni di rompere con la Sinistra Arcobaleno alle politiche: accanto al fallimento di Rutelli, il successo conquistato alla Provincia di Roma dal candidato Zingaretti, con un numero di voti nelle sezioni elettorali della capitale che fanno subito sospettare un paradossale esercizio del voto 'disgiunto', Zingaretti alla Provincia e Alemanno al Comune ("Ipotesi che fa ribrezzo", scrive 'l'Unità', ma tant'è).

Una modalità quasi dadaista per praticare la vendetta della sinistra radicale contro la leadership del Pd, responsabile della scelta di 'correre da soli' (nei centri sociali l'idea di punire Veltroni votando Alemanno era stata sostenuta ripetutamente). Un colossale 'tié', magari con il gesto dell'ombrello, rivolto a 'Franciasco', l'uomo dei vescovi, l'amico della Binetti, il cattolico delle alleanze "di nuovo conio". E che esalta la capacità di Alemanno di unire le 'due Rome', da un lato la città centrale della borghesia, i Parioli, i circoli tiberini, il generone scettico che si era prestato all'unanimismo veltroniano, e dall'altro le borgate e gli outsider. La destra 'sociale' del genero di Pino Rauti promette infatti misure di sicurezza alla borghesia spaventata dai comportamenti irregolari dei clandestini, e offre rappresentanza all'universo marginale nelle periferie (laboratorio sociale e politico tutto da analizzare, che sembra essere stato messo a fuoco soltanto dalla percezione letteraria di Walter Siti, autore di un recente e impressionante libro postpasoliniano, 'Il contagio', che esplora l'antropologia degradata e mutante della Roma periferica). Mentre anche dalle borgate salgono slogan che scandiscono "via gli albanesi, via i romeni", Alemanno seleziona utilmente aspettative differenziate anche nella Roma del degrado, prospettando criteri che etichettano i clandestini come il nemico interno da colpire con spettacolari misure di polizia.

Ora, è vero che il trionfo capitolino ha un impatto anche sul Pdl e nel rapporto con la Lega, con un politico meridionale che fa il salto di qualità, comincia a oscurare Gianfranco Fini in procinto di sedersi sullo strapuntino della Camera, e in qualche misura riequilibra il successo di Umberto Bossi al Nord. Ma è fuor di dubbio che il crollo a Roma rappresenta un macigno sulla strada del Pd, e in particolare del Pd veltroniano. Finora, dopo il risultato del 13-14 aprile, si poteva sostenere che il 33,1 per cento, pur nella sconfitta, rappresentava la costituzione del 'motore riformista', un partito in grado di diventare competitivo nel medio periodo, e che risultava capace di mobilitare le città, i ceti culturalmente più elevati, il lavoro dipendente qualificato, la società italiana più moderna e creativa.

Prima del 'voto di pancia' e della voglia di discontinuità, prima del sacco di Roma da parte delle 'truppe alemanne', Veltroni poteva accampare una serie di giustificazioni credibili. A gravare sul Pd c'era l'impopolarità di Prodi, nel Nord industriale lo sfondamento della Lega nelle fasce operaie, al Sud l'effetto desolante dell'emergenza rifiuti. C'era da mettere a fuoco il progetto berlusconiano di 'modernizzazione reazionaria', o anche semplicemente conservatrice, fondato sulla sintesi del secessionismo leghista con il protezionismo tremontiano e il clientelismo dell'Mpa di Raffaele Lombardo. A cui adesso si aggiunge il successo 'missino' di Alemanno, prefigurando una destra complessivamente nazionalcorporativa, aggregatrice di interessi parziali.

Non conviene naturalmente ai 'democrat' cercare pallide rivincite di tipo culturale, stigmatizzando un modello politico a sfondo peronista. Ma intanto, prima di procedere alle ritorsioni interne inevitabili nelle sconfitte, ci sono da mettere a fuoco alcuni aspetti problematici, che la leadership del Pd dovrà affrontare. In primo luogo, l'esaurirsi empirico della pregiudiziale antifascista e resistenziale, cioè l'esito fisiologico di un processo socioculturale per molti versi inevitabile (ma che toglie valore alle richieste di "lealtà costituzionale" che Veltroni aveva inviato a Berlusconi negli ultimi giorni della campagna elettorale del 13 aprile, ricevendone in cambio un'alzata di spalle). In futuro sarà difficile esibire una sorta di superiorità etico-repubblicana come risorsa politica spendibile, così come sarà inutile puntare sui simboli se in gioco ci sono gli interessi. Insomma se ne va fuori dalla simbologia politica il ditino alzato dell'ideologismo targato Fgci, se è vero che il 'capobranco missino' Alemanno sbanca il Campidoglio con una campagna sinceramente populista, in una fragranza tutt'intorno di umori autenticamente fascisti.

In secondo luogo, se il Pd riuscirà a sopravvivere al contraccolpo della sconfitta alle politiche e alla caduta di Roma, dovrà uscire dalla sindrome di un partito che per una settimana, aspettando l'apertura del Parlamento, ha discusso esclusivamente della questione epocale di chi dovevano essere i capigruppo alle Camere. Andrebbe tenuta a mente come uno scongiuro la battuta di Giancarlo Pajetta dopo i funerali del 'Migliore': "Con la morte di Togliatti nel Pci si chiude una fase e non se ne apre nessun'altra".

Per evitare una dinamica dissolutiva, il Pd deve provare a ripartire. Deve avere la consapevolezza che la propria classe dirigente è particolarmente logora e che niente come le sconfitte richiama le sconfitte. Occorre quindi mettere in rete gli amministratori locali più capaci, dal sindaco di Torino Sergio Chiamparino al sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, e individuare una strategia di azione sul territorio. È la fase in cui le posizioni di rendita stanno smottando, e in momenti come questo devono uscire allo scoperto le energie meno consumate. Innanzitutto la coppia composta da Pier Luigi Bersani ed Enrico Letta, per ricominciare dal territorio. E poi, occorre inquadrare le prossime sfide: ci sono alle viste le elezioni europee del 2009 (un incubo, dato che con la proporzionale non c'è voto utile che tenga) e il referendum elettorale. Ci vuole una strategia. Altrimenti, le spinte alla disintegrazione non le fermerà nessuno, e il tutti a casa sarà inevitabile

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