(Lucio Brunelli - L'Eco di Bergamo) Per una singolare coincidenza i destini di Roberto Benigni e Joseph Ratzinger si sono incontrati. È accaduto negli ultimi giorni. L'attore giovedì e il Papa venerdì ci hanno condotto a meditare sul Giudizio universale, al nostro destino dopo la morte. Alla possibilità della salvezza eterna ma anche a quella della perdizione eterna.
Entrambi ci hanno parlato dell'inferno.
Benigni commentando alla sua maniera, in tv, il quinto canto dell'Inferno della Divina commedia.
Benedetto XVI affrontando il tema dell'aldilà nella sua nuova enciclica «Spe salvi».
Temi che di solito ci mettono a disagio, e infatti in Occidente li abbiamo rimossi dalla nostra vita, persino dalla predicazione cristiana. Eppure, l'inedita e improbabile coppia Benigni-Papa ha compiuto il miracolo. Almeno per qualche istante abbiamo pensato alle verità ultime – l'amore e la morte, la speranza e la dannazione – senza sentirci oppressi o bigotti. Ed anzi (questo è il miracolo) assaporando tutta la drammaticità, ma anche la passione e la bellezza delle parole ascoltate o lette.
Benigni l'ha fatto in diretta, davanti a 10 milioni di spettatori. Un evento memorabile nella storia della televisione e della cultura italiana. L'ha fatto da poeta popolare, facendoci insieme sorridere e commuovere. La profondità sublime di Dante – profondità cristiana! – resa accessibile e godibile a chiunque. Il dramma degli amanti più celebri e sfortunati, Paolo e Francesca, che accettano con dolore ma senza astio verso Dio la punizione inflitta per la passione di un attimo. E il dramma di Dante, che sviene dal dolore, come morto: tanto si immedesima con la loro storia, ne condivide i patimenti. Così che resta la verità dell'ammonimento, ma anche un fremito di misericordia, perfino nel regno delle tenebre, dove il nome di Dio non può essere nemmeno pronunciato.
Il Papa l'ha fatto in una enciclica destinata potenzialmente a un miliardo di lettori. L'ha fatto come lui solo sa fare. Da teologo colto e raffinato. Citando i grandi della filosofia e della letteratura. Parlando, di fatto, più al mondo dell'alta cultura occidentale che all'uomo (e al cristiano) comune: «La grazia non esclude la giustizia. Non cambia il torto in diritto. Non è una spugna che cancella tutto così che quanto s'è fatto sulla terra finisca per avere sempre lo stesso valore. Contro un tale tipo di cielo e di grazia ha protestato a ragione, per esempio, Dostoëvskij nel suo romanzo I fratelli Karamazov. I malvagi alla fine, nel banchetto eterno, non sederanno indistintamente a tavola accanto alle vittime, come se nulla fosse stato». Parole terribili ma anche consolatorie ed avvincenti nella loro verità. Anche quando, implicitamente, il Papa polemizza con il suo defunto maestro e amico von Balthasar, teologo svizzero che ipotizzava un inferno vuoto. «Persone in cui tutto è diventato menzogna; persone che hanno vissuto per l'odio e hanno calpestato in se stesse l'amore. È questa una prospettiva terribile, ma alcune figure della stessa nostra storia lasciano discernere in modo spaventoso profili di tal genere. In simili individui non ci sarebbe più niente di rimediabile e la distruzione del bene sarebbe irrevocabile: è questo che si indica con la parola inferno». Hitler, Stalin, Pol Pot... Pensa a loro il Papa, come probabili inquilini dell'inferno? Se il Giudizio di Dio fosse solo grazia, senza giustizia, la vita terrena sarebbe irrilevante. Ma se il Giudizio fosse pura giustizia, aggiunge Ratzinger, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di paura. Con l'incarnazione di Dio in Cristo giudizio e grazia si sono collegate talmente l'una con l'altra – conclude il Papa – che noi tutti possiamo attendere la salvezza con «timore e tremore, ma anche con la speranza di andare incontro a un Giudice che conosciamo come nostro avvocato».
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