Filmato da una telecamera davanti alla casa ha portato in lavanderia i vestiti insanguinati.
(Alessandra Cristofani - La Stampa) Ha compiuto un errore il quarto uomo dell’uccisione di Perugia ricercato dagli inquirenti. Contro di lui le sue stesse impronte digitali impresse sul sangue di Meredith. Una firma lasciata sul cuscino della giovane inglese, colpevole solo d'aver detto no ad un gioco erotico cui non voleva sottoporsi. Sarebbe un musicista maghrebino, ora irreperibile, l'uomo che gli investigatori stanno cercando di stanare, il complice che ha pensato di farla franca. C'era anche lui la notte in cui Mez ha urlato tutto il suo terrore mentre Amanda, la dolce Amanda che ieri dal carcere chiedeva un dizionario, si tappava le orecchie.
Sarebbe uno del giro, un habitué dei locali più alla moda dell'acropoli perugina, il quarto uomo sulle tracce del quale si sono messi gli inquirenti umbri. Forse uno che frequentava il centralissimo «Le Chic», il pub che Patrick aveva preso in gestione da agosto. Un altro amico, di quelli che se non ti ammazzano magari sono disponibili a chiudere un occhio. Potrebbe aver commesso il suo secondo errore quando alle tredici e trenta del 2 novembre, accompagnato da una giovane donna, ha varcato la soglia della lavanderia di via Fabretti, a due passi dalla villetta degli orrori, per infilare in tutta fretta nel cestello della lavatrice a gettone abiti e scarpe. «Si è messo anche a rovistare in un cassonetto», ha dichiarato in questura Alice, la testimone oculare della lavanderia. Ci sono poi le telecamere del parcheggio automatizzato Sipa, esattamente di fronte alla casa di Mez, che hanno registrato il passaggio di un uomo, dall'andatura fin troppo spedita. Tra ritrattazioni e colpi di scena, accuse e semi-confessioni sembra complicarsi, minuto dopo minuto, la ricostruzione della notte in cui fu sgozzata Meredith Kercher. Troppe bugie e gravi indizi di colpevolezza per il giudice per le indagini preliminari Claudia Matteini che ieri mattina ha depositato il provvedimento di convalida dei fermi per i tre indagati. C'è qualche menzogna di troppo nella storia del festino a luci rosse finito nel sangue. C'è Patrick, lo zairese di Kindu, che continua a ripetere «Io non c'ero».
Il gip non gli crede, nemmeno quando dice del suo amico Usi che nel pub di via Alessi sarebbe entrato intorno alle venti. Impossibile, replica la Matteini. Impossibile perché il locale è rimasto chiuso dalle 19 in poi, fino al primo scontrino che porta impresso l'orario delle 22.29, come testimoniato da un cliente abituale. Ma è proprio Usi a farsi avanti, ieri sera, per confermare, di fronte all'obiettivo delle telecamere di Matrix, l'alibi di Pat. Peccato che non ricordi l’ora in cui è entrato nel bar. Un cerchio di silenzio avvolge Amanda, lei che ha parlato per prima e che durante l'interrogatorio di garanzia non ha detto una sillaba. Neanche di lui, Raffaele, il fidanzatino di quindici giorni insieme al quale la mattina dopo il delitto si è fatta trovare mano nella mano, di fronte alla casa al civico sette di viale Sant'Antonio. Sua, del quasi ingegnere dai capelli quasi biondi, l'arma del delitto, un coltello a serramanico con la lama di oltre otto centimetri. Sua l'impronta sul pavimento insanguinato della camera di Mez.
Non c'entra nulla, insistono i suoi legali, gli avvocati Luca Maori e Tiziano Tedeschi, ma intanto l'Audi del giovanotto pugliese è stata sequestrata alla ricerca di eventuali tracce di sangue sui pedali. Troppe bugie e troppe distorte verità. Le risposte, le prime, arriveranno a partire da lunedì dagli accertamenti scientifici dei reperti raccolti dell'Ert, portati nei laboratori di Roma.
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