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martedì 10 giugno 2008

Iran, uccisi perchè "nemici di Allah".

Nella precaria democrazia dei Paesi Arabi c’è spazio anche per l’omofobia. Quella dal volto peggiore. Fatta di condanne, che giungono dopo processi quasi inesistenti, e di punizioni disumane e silenziose che mettono sul patibolo gay, lesbiche e trans colpevoli di aver violato la marmorea tradizione islamica.

(Anna Giuffrida - CCS News) “Quando un uomo monta un altro uomo, il trono di Dio trema”. Corano alla mano e sulle bocca i versi degli Hadith, i detti del Profeta Maometto, i giuristi e gli uomini di “cultura” impongono la loro condanna.
Il crimine-peccato dell’omosessualità, previsto nella sharia per abominazione e perversione contro il diritto di Allah, punisce i musulmani credenti e non con atroci torture o a cinque anni di carcere abbinati ad una fustigazione purificatrice, fino a prevedere la castrazione chimica. E a volte per educare il popolo contro simili violazioni si ricorre anche alla pena esemplare. Come nel caso di due gay, uno dei quali 15enne, impiccati sulla pubblica piazza alcuni anni fa dopo essersi dichiarati omosessuali.

Una spesso silenziosa strage che costringe alla fuga tanti uomini e donne che, rifiutati dalla religione che professano e dallo Stato cui appartengono, cercano protezione altrove. Solo nell’ultimo anno sono due i casi che a fatica hanno raccolto l’interesse politico internazionale. Protagonista una lesbica, Pegah Emambakhsh, e un giovane gay, Seyed Medhi Kazemi, entrambi iraniani e con un destino simile. Quello del rischio di vedersi rifiutato il diritto d’asilo, dal Regno unito e dalla moderna Olanda, e decisi a restituirli al mittente come fossero un pericoloso pacco-bomba. Conseguenza di un timore, legittimo, del terrorismo e di un intento, meno apprezzabile, di non turbare i rapporti con la fonte energetica dell’industria ed economia occidentali.

La vicenda, che si è conclusa con la semplice applicazione della Convenzione dell’ONU sui diritti dei perseguitati, ha avuto un lieto fine soprattutto per l’intervento di organizzazioni internazionali molte delle quali anche musulmane. In un tam tam interattivo da un capo all’altro del mondo c’è chi dà voce a questi clandestini in patria e cerca di fermare questa “guerra culturale” promossa dalle frange fondamentaliste.
Una lotta iniziata nel maggio 2002 con l’arresto dei tanti frequentatori della discoteca egiziana Queen Boat, uno dei locali sorti come ritrovo e rifugio per gli omosessuali, e che aveva di fondo una vendetta politica. Il primo arresto di massa per “fallir”, depravazione, e culto blasfemo che aprirà le porte ad un vero conflitto.

Dal Nilo si è infatti esteso giungendo in Palestina, dove la “persecuzione” escogita nuovi sistemi. Come quello di prelevare i gay da casa con l’accusa di collaborazionismo, di essere spie degli israeliani, e picchiarli.
Ma tra tradizioni, dialoghi tra politica e religione imposti ormai come monologhi, e assenza delle tutele elementari in nome della tolleranza c’è spazio anche per le contraddizioni. Proficue, stavolta. Quelle del Libano che, pur non avendo una legislatura che tuteli dall’omofobia, è uno dei Paesi arabi più tolleranti. Come anche il Marocco che, dopo essere stato per secoli con la capitale Casablanca meta preferita degli occidentali in cerca di una identità, resta nella lista dei più “virtuosi” per la condizione dei gay.

Il Gay Pride, “cantiere pensoso e colorato” come lo ha definito la Lega islamica Anti-diffamazione che ha preso parte all’edizione romana di questi giorni, deve guardare di più a questo angolo buio del mondo. Perché la lotta per i diritti inizia dal rimettere la giusta distanza tra la “nozione di peccato indotto dal fanatismo religioso e la libera scelta di credenti e non credenti”.

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