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domenica 18 novembre 2007

Maldive, inferno in paradiso.

Polizia in assetto antisommossa a Male
(Stella Pende - Panorama) È un mare color del vetro quello che bagna l’isola di sabbia candida come la cipria di una dea. Le palme di cocco offrono le foglie al vento e gli uccelli sembrano angeli portatori di bellezza. Maafushi era una delle isole più belle delle Maldive. Ma oggi ha una vera originalità: i suoi turisti sono tutti cittadini maldiviani carcerati in questa che è la prigione di sicurezza tra le più segrete del mondo.

Maldive sconosciuto orrore: 1.200 atolli di sabbie candide ma anche 1.200 prigionieri che marciscono nelle galere. Maldive grande menzogna dell’Asia: il più sognato e pagato paradiso del turista si è trasformato per i suoi cittadini nell’inferno più feroce. Un inferno che il governo del paese nasconde per proteggere l’uragano di dollari (540 miliardi all’anno) che arrivano dal turismo affamato di abbronzature. Ma dietro i sogni di vacanze esotiche si consumano torture e corruzione, morti e censure. Basta una manifestazione pacifica, il sospiro di un dissidente, un articolo di giornale e sei imprigionato per anni o a vita. Maldive paradiso perduto. Dove il presidente Maumoon Abdul Gayoom, uomo piccolo e potentissimo, che pare un bulldog inglese e ne pratica la ferocia, schiavizza il paese da 30 anni. Da quando nel 1978 ha preso possesso del suo palazzo dalle mille stanze zeppe di ritratti dell’amico del cuore Saddam Hussein non ha più lasciato il suo trono d’oro. “Per chi scopre la nostra verità è ogni volta lo shock. Nessuno sa che paghiamo l’incanto del nostro mare con l’umiliazione di una dittatura infinita e crudele, con la tortura e il carcere. Con la vita”. A parlare è Ibrahim Lufty, detto il Cybercombattente (ha inventato Sandhaanu, newsletter epica fra i giovani dell’opposizione maldiviana), uno dei pochi oppositori che è riuscito a scappare dal paradiso-inferno dopo mesi di galera, dove è diventato cieco. Dai pesci pappagallo alle mucche svizzere: a Lugano lavora giorno e notte per far scoprire al mondo quale segreto nascondano le sue isole incantate e maledette. Parla sempre di un paese doppio Ibrahim. Quello surreale dei villaggi del lusso, tutti di proprietà del governo che li concede ai vari tour operator, e quello delle città, dove i turisti hanno la proibizione di mettere piede per non scoprire il marcio.

“Ma la bomba scoppiata il 29 settembre davanti al Sultan park di Male ha fatto scoprire che dietro bungalow e bikini esistono la vita e la morte di un paese di disperati”: Ahmed Naaranthy, sociologo maldiviano, ha visto il fuoco dell’esplosione. “Il presidente davanti al terrore di un turismo spaventato ha prontamente arrestato i colpevoli: sette maldiviani e tre cittadini del Bangladesh”. Moosa Inas, di anni 21, e l’amico Ahmed Naseer, di 20, ambedue dell’atollo di Laamu, sono stati scoperti, così dice il rapporto ufficiale, dalla classica telecamera mentre entravano nel Sultan park. Altri, scappati in Pakistan dopo l’esplosione, hanno subito avuto l’estradizione da Islamabad.

Si parla di una cellula di Al Qaeda, nutrita dai sauditi che dopo lo tsunami finanziano nelle isole scuole coraniche e organizzazioni musulmane di beneficenza. Il fondamentalismo wahhabita, esploso negli ultimi anni, pesca nella fame dei maldiviani e dei pescatori che, respirando i miliardi del turismo, devono sopravvivere con un solo dollaro al giorno. “I prescelti sono spediti nelle madrasse del Paskistan dove vengono allenati alla guerra santa” spiega Ahmed Naaranthy. “Il nostro è sempre stato un Islam sunnita e moderato con qualche vezzo. Alcuni fan del presidente raccontano che lui è il terzo nella santa gerarchia: prima Allah, poi Maometto e infine Gayoom, cioè Kuda Kuda Kalaan’ge, il dio piccolo piccolo. Riferito alla sua altezza, naturalmente”. Sorride il sociologo, ma rivela che da qualche tempo il burqa è atterrato nelle strade e perfino sulle spiagge di cipria. “E non pochi giovani oggi esibiscono fieri la seconda e anche la terza moglie”. Tanto che perfino una colonna dell’opposizione come Aishath Aniya ha scritto un articolo non proprio entusiastico: “Il burqa non è maldiviano, non è femminile, non è libero. È solo una museruola della religione. E avere una seconda moglie è preistoria”. Parole che sono costate a questa Salman Rushdie delle isole una condanna a morte dai wahhabiti e che l’hanno costretta a lasciare il Partito democratico maldiviano. Qualcuno vede invece questo nuovo fondamentalismo come un ottimo alibi del presidente per contrastare l’opposizione.

“È stato Gayoom a coltivare l’Islam fondamentalista per controllare i nuovi partiti che ha dovuto concedere sotto le pressioni dall’Onu” racconta a Panorama Ahmed Abbas, genio del fumetto maldiviano e spina nel fianco del presidente. “Negli ultimi due anni i fanatici fanno il bello e il cattivo tempo davanti a una polizia incredibilmente paralizzata. A Himandhoo, la più ‘talebana’ delle isole, un ufficiale è stato ammazzato dopo la chiusura di una moschea. Zero indagini. A giugno una carica di fondamentalisti ha travolto la guardia presidenziale. Non un colpevole. Vuole la verità? Il fondamentalismo religioso serve al presidente per ritardare le riforme. Aveva promesso una nuova costituzione a fine ottobre, ma oggi i wahhabiti discutono sulla sharia. Il dibattito allunga i tempi e le elezioni multipartitiche promesse nel 2008 si allontanano”. Ahmed è un eroe leggendario per il popolo degli atolli. Uomo del Partito democratico e disegnatore della moneta nazionale, ha riempito con le sue irresistibili vignette i giornali dell’opposizione e, a pioggia, i siti internet. Naturalmente il mini-dittatore maldiviano, afflitto da un testone e da orecchie canine, è il suo soggetto preferito. Finché non è stato condannato al carcere più duro nella prigione di Maafushi. Liberato a maggio scorso, non ha mai avuto processo né una vera accusa. “Una prigionia molto utile” dice ironico e commosso. “La mia avventura ha girato il mondo e oggi le Maldive non sono più solo isole belle, senza anima né dolore. In carcere ho imparato molto”. Non ce la fa a parlare di torture: “I galeotti sono stimolanti: ho passato notti intere a disegnare di nascosto con loro e per loro. Si tratta per lo più di giovani trafficanti di droga condannati alla galera a vita e poi dei cosiddetti prigionieri di coscienza: ribelli e oppositori. Affamati e torturati. Anche se Gayoom ha ristrutturato con grande fanfara le sue galere per dimostrarsi governante assai democratico”.

Ahmed racconta una sorprendente verità dell’opposizione: “Molti fra i combattenti della libertà sono donne: belle, giovani e giornaliste”. Come Jennifer Latheef, anche lei fotoreporter del quotidiano Minivan (di proprietà del leader dell’opposizione Anni Nasheed), che condannata per terrorismo il 18 ottobre 2005 finisce in galera e poi agli arresti domiciliari, per curare una spina dorsale massacrata dalle percosse dei secondini. Quando, dopo mesi, il magnanimo presidente le annuncia il suo perdono, la giornalista rifiuta la grazia. “Non sono una terrorista, ho solo manifestato pacificamente contro l’assassinio di un prigioniero torturato in carcere” ha detto. “Se volete liberarmi dichiarate la mia completa innocenza”. Un coraggio da fiera che non è solo di questa figlia di Mohamed Latheef, grande uomo dell’opposizione esiliato in Sri Lanka. Ma anche del direttore di Minivan, Aminath Najeed, signora che va e viene dalle galere con grande dignità. “Sarò processata il 15 novembre” dice con voce debole da Male, dove vive. “Forse sarò condannata per chissà quale reato, ma lei lo scriva, la prego. Voi giornalisti liberi parlate delle Maldive, non ci lasciate soli nell’indifferenza del mondo”.

Anche Aishath Velezini, direttore del settimanale Adduvas, combatte oggi contro minacce di morte e peggio ancora. La colpa è di un suo sgradito scoop sui danarosi favori accordati a ufficiali corrotti del regime e a poche elette famiglie che, con quella del presidente, comandano le isole. La verità è che oggi Gayoom, accerchiato dalle critiche di Amnesty international e delle Nazioni Unite, ha dovuto concedere la pubblicazione di pochi e veri giornali. Ma fino a ieri, in un paese dove la libertà di scrivere era peccato mortale, gli internet figthers (i lottatori nell’etere), autori di siti, chat e blog, hanno popolato di incubi i suoi sonni per anni. Mohamed Zaki, giornalista del sito Sandhaanu, e il suo collega Ahmad Didi avevano trovato un modo rapido per diffondere i loro bollettini di lotta: creavano un file facile da stampare, lo portavano criptato in Malaysia e da lì lo spedivano a migliaia di indirizzi email. È durata poco. Ma una volta scoperti le loro condanne all’ergastolo e le torture si sono dimostrate un tale boomerang per il presidente del falso paradiso da costringerlo a metterli agli arresti domiciliari.

Oltre alla galera di Maafushi e al carcere di sicurezza di Dhoonidhoo, oggi una delle prigioni più frequentate dai dissidenti è l’accademia militare di Ghirigushi, convertita in carcere. “Il nostro presidente possiede la simpatia politica di Saddam Hussein e lo spirito democratico di Augusto Pinochet” racconta un dissidente che, vivendo in patria, ci tiene a rimanere vivo dimenticando il suo nome. In realtà l’astuto imperatore delle Maldive ha cercato più volte di fare il make-up al suo governo. A settembre ha aderito al Patto internazionale sui diritti civili e politici (Iccpr), poi a quello sui diritti economici, sociali e culturali. Da due anni ha aperto agli altri partiti, prima vietati (il Mdp, il partito democratico, è il più forte nell’opposizione) e promette un processo di riforme che per ora è solo un fantasma. “Ma le parole del nostro dittatore non corrispondono sempre ai fatti” avverte Ibrahim Lufty. Di certo su queste isole lontane rimane il rapporto sulla violenza nelle carceri di Amnesty international, che riguarda soprattutto le donne. Durante gli interrogatori la presenza dell’avvocato difensore non è prevista. I giudici dipendono tutti dal presidente. Mariyam Manike, madre di Evan Naseem, ammazzato da una guardia carceraria nel settembre 2003, è stata arrestata per aver fatto conoscere il fatto. Poi picchiata a sangue, presa a calci nella vagina e nello stomaco. Finché non ha perso conoscenza. Elena Ahmed Abass, imprigionata varie volte, racconta che quando la portavano via bendata una guardia le ha messo in faccia il suo pene eretto. Le ha sputato addosso insultandola. Era solo il principio di torture sessuali inimmaginabili. Jennifer Latheef rivela che i carcerieri la sottoponevano a visite anali, che la picchiavano bendata, che era costretta a urinare davanti a loro. Oggi soffre di attacchi di panico. Fathimath Nisreen, giornalista arrestata a 24 anni, oggi, dopo tre anni di galera, non ce la fa a parlare delle violenze subite.

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