(Gianluca Marziani - Panorama) Si scrive pop e dovunque si pronuncia pop, una chiave universale per un movimento, la Pop art appunto, che nella facilità del nome già spiega il suo successo planetario. Due consonanti che scoppiano e una vocale d’intermezzo a segnare un’influenza sui costumi di intere generazioni.
Perché Pop art significa anni Sessanta del consumismo e del benessere, del divismo e dei media nei giorni dell’accelerazione tecnologica. È l’epoca in cui esplodono gli omogeneizzati e lo yogurt, il sottovuoto e i liofilizzati, la lavastoviglie e i detersivi, il mangiacassette e il satellite per le telecomunicazioni, il Tetrapak e il Domopak, i collant e la minigonna, il Lego e la Barbie, la Polaroid e gli autogrill, lo scotch e i circuiti integrati, la pillola anticoncezionale e i pannolini… Insomma, giornate di solide intuizioni ed euforia diffusa, di libertà sessuali e vicende da copertina.
Pop indica una rinnovata cultura popolare che metabolizza la vita e si imprime sull’opera come un tatuaggio dal make-up accattivante. Un modo oggi ovvio ma che nel dopoguerra inaugurava un rivoluzionario rapporto tra la vita e l’immagine artistica. Pensate ai volti famosi, ai prodotti da supermercato o agli oggetti domestici che sbucavano tra pitture e sculture. Un deciso cambio di rotta stilistica e concettuale, il primo momento in cui l’arte non solo imita la vita ma la prende in prestito e ne usa la bellezza, la forza comunicativa, il messaggio alchemico.
L’universo pop è stato il vero spartiacque del Novecento, un movimento di pensieri sovrapposti uniti da un comune denominatore: portare la sensualità della vita moderna dentro l’opera, ingigantendo o isolando le forme note, esaltando l’erotismo e l’energia di ciò che solitamente ci sfugge. Il progresso veniva radiografato dagli artisti con stile sintetico, così immediato da inventare un sistema perfetto di comunicazione trasversale. C’erano complessità e profondità ma stavano sulla superficie dell’immagine: ed esaltavano le opere con i sapori della metropoli, gli odori del linguaggio quotidiano, i colori delle nuove merci e la grinta del futuro.
Il meglio accadde negli anni Sessanta, sull’onda di una Biennale veneziana che nel 1964 diede la patente istituzionale al movimento. Da quel frangente in poi le forme del pop hanno influenzato la moda, il design, la grafica, il marketing pubblicitario, le riviste, la tivù a larga diffusione. Pensiamo agli oggetti di Marco Zanuso, Achille Castiglioni, Joe Colombo, Verner Panton, Pierre Paulin: telefoni, lampade, televisori, radio e sedute che si lasciavano amare con quei colori acrilici, la plastica, le linee che ricordavano il corpo femminile.
Nella moda, sul filo di una sensualità affilata alla Twiggy, esplodevano Pierre Cardin, Paco Rabanne, Mary Quant, Rudi Gernreich, Emilio Pucci e altri maestri tra progresso e ironia. Londra e New York sono state le città regine della prima onda pop, dimostrando che l’originalità artistica poteva estendersi a tutta la creatività ma anche allo stile di vita delle persone comuni.
Dopo lo spartiacque ideologico del ‘68 cambiarono molte cose, eppure la filosofia pop è rimasta al centro del mondo, influenzando la cultura lisergica degli anni Settanta, l’edonismo degli Ottanta, il nuovo ordine dei Novanta, l’eclettismo di epoca recente.
A raccontare la Pop art hanno provveduto mostre su mostre, alcune imperdibili come nel caso di Les années pop (2001) al Centre Pompidou di Parigi. Alle Scuderie del Quirinale di Roma ci prova oggi un progetto dal titolo senza fronzoli: Pop Art! 1956-1968 (a cura di Walter Guadagnini, dal 26 ottobre fino al 27 gennaio 2008, catalogo Silvana Editoriale).
Nelle sale sfilano oltre 100 opere per una cinquantina di artisti che delimitano il movimento negli aspetti di maggior influenza. L’elenco privilegia statunitensi e britannici ma non dimentica francesi, tedeschi, spagnoli e, ovviamente, italiani.
Come le cronache hanno narrato con tanti scritti ma anche con fotografie, film, documenti e racconti orali, la Pop art esplose nei primi anni Sessanta nei paesi del modernismo evoluto. La Gran Bretagna ha una sorta di paternità, un imprinting d’origine in cui la qualità dei suoi maestri si mescolava con l’avvento di Beatles e Rolling Stones, Carnaby street e minigonne, Biba e nuovi trend. Ma il successo totale prese forma a New York, la città che dagli anni Cinquanta, sostituendosi alla Parigi del primo Novecento, incarnava la culla dei musei, degli artisti e dei galleristi dal futuro leggendario.
Ad aprire le vie della Pop art avevano già pensato Jasper Johns e Robert Rauschenberg, due talenti che, capendo il limite della pura astrazione, decisero di mescolare la pittura con alcuni feticci della vita reale. Johns reinterpretò il simbolo per eccellenza, ovvero la bandiera americana, aprendo al quadro strade finora impraticabili; Rauschenberg andò tra i rifiuti urbani, riciclò roba di vario genere e la ricompose sul quadro assieme a una pittura selvaggia.
Andy Warhol, Roy Lichtenstein, Claes Oldenburg e gli altri big di New York devono a loro l’accensione della miccia pop.
Warhol, il più grande di tutti, si dedicò ai volti famosi, ai prodotti di largo consumo, al dollaro e alle prime pagine dei quotidiani, convinto che la riproducibilità serigrafica aggiungesse valore alla sua giusta megalomania. Lichtenstein ingrandì le immagini da fumetto apparse sui giornali, dipingendole con una meticolosa cura del dettaglio. Oldenburg ingigantì o reinventò cibi, oggetti e altre forme del quotidiano, dando alla scultura nuove soluzioni plastiche. Nel frattempo a Londra spiccavano le opere di Richard Hamilton, Peter Blake, Allen Jones, David Hockney… A Roma le opere di Mario Schifano, Pino Pascali, Fabio Mauri, Franco Angeli, Tano Festa, Renato Mambor, Giosetta Fioroni, Sergio Lombardo, Mario Ceroli, Mimmo Rotella. A Parigi quelle del Nouveau réalisme. In California quelle di Ed Ruscha, Mel Ramos, Billy Al Bengston…
Il percorso della mostra, al posto del tipico andamento cronologico, si configura in quattro momenti tematici: la centralità dell’oggetto, le icone dello star system, il rapporto con la cultura “bassa”, la forma del corpo e la sua sessualità. I segni del mondo moderno ci stanno tutti, gli artisti digerivano ciò che scorreva nelle vetrine, sulle insegne, sui giornali, in televisione, nei magazine, al cinema. Hanno regalato alla società un significativo frangente di creatività comunicativa eppure drammatica, bella benché critica e moralmente rigorosa. Stabilendo, al dunque, una visione e un approccio che non sarebbero più scomparsi.
La riprova? Guardatevi in giro, osservate la vostra casa, le città, le riviste, il mondo del web: capirete che la Pop art non ha vinto una battaglia ma la guerra del gusto.
Nessun commento:
Posta un commento