Puro come un "giglio": il nuovo Tricarico.
(Cadavrexquis) Giglio è il nuovo album di Tricarico, che secondo me è stata la presenza più originale dell'ultimo festival sanremese. L'ho comprato quasi a scatola chiusa, ma non mi ha deluso e, anzi, da allora non smette di girare nel lettore cd. Giglio è una fotografia del personaggio e del mondo di Tricarico. Undici pezzi in cui il cantautore rivela una sensibilità acutissima che si manifesta con un immaginario molto visivo, a tratti fanciullesco, usato però per trattare temi che non hanno nulla di rassicurante. Tutt'altro: l'ascoltatore ha l'impressione di avere davanti a sé un uomo che si muove nel mondo quasi come se non avesse più una pelle a separarlo dalle offese e dai dolori, un uomo che solo attraverso queste canzoni - all'apparenza così strane e allusive - riesce a difendersi e a lenire un po' le proprie ferite. Il canto di Tricarico è in realtà un "non canto", una sorta di incrocio tra Vasco Rossi e Lucio Battisti. Qualcuno è infastidito da questi "cantanti" che non sanno cantare - leggevo al riguardo un pezzo su La Stampa di ieri -, ma a me non pare il caso di infierire, perché quello che conta è l'interpretazione. Qui, come nell'esecuzione di Sanremo, si avverte che Tricarico è viscerale: canta cioè con la pancia, che ancora più dell'ormai svalutato e banalizzato cuore è la sede delle emozioni. Chi lo ascolta, avverte una nota di sincerità e, a sua volta, prova la stessa emozione del cantante.
L'album si apre con Oroscopo, un pezzo dall'andamento un po' jazz in cui si prendono i giro quei "maghi" che, sfruttando le debolezze degli ingenui e il loro bisogno di rassicurazione, fanno credere di saper leggere il futuro, mentre in realtà sono dei pozzi di cinismo. Eternità - il terzo brano dopo Vita tranquilla - riprende lo stesso tema della canzone sanremese: la ricerca della serenità nelle cose semplici e nella vita di tutti i giorni, un'esigenza tanto più forte quanto più profondo è l'abisso che minaccia la tranquillità dell'esistenza. Un'altra possibilità è una delle canzoni che, in maniera più esplicita, affondano il coltello nel disagio psichico. In questo caso - sostenuto da una musica nervosa e ritmata, che si scioglie quasi in un'invocazione ottimistica nel refrain - il tema è la "coazione a ripetere" causata da traumi antichi che spingono l'individuo a infliggere agli altri il male patito. Le altre due canzoni che si spingono sul terreno accidentato del disagio psichico sono Pomodoro e Fili di tutti i colori. La prima sembrerebbe, a un ascolto superficiale, una filastrocca infantile, sia per la melodia che per i testi. In realtà, prestando più attenzione alle parole, ho la netta sensazione che descriva il narcisismo patologico di chi non distingue tra sé e il mondo e finisce per "annegarci" dentro, proprio come il mitico Narciso davanti allo specchio d'acqua. Per raccontare questa esperienza, però, Tricarico usa una serie di immagini leggere, bambinesche, e le rafforza attraverso la reiterazione: "Com'è che se mi mangia una tigre non diventa lei Francesco? / Com'è che se mi bacia una ragazza non diventa anche lei un maschio?". La seconda - Fili di tutti i colori - sembra assurda, ma in realtà parla di autismo e lo fa adottando il punto di vista del bambino sottoposto a un test psichiatrico che deve stabilire se è "sano" o no. La canzone racconta, insomma, da dentro come ci si sente a subire una violazione della propria intimità. Il bambino non comprende il senso di questa indagine e protesta: "io... credevo che... tutti... fossero... come me". E il senso di rabbia si riflette nella musica: è il brano più violento di tutti, un punk-rock pieno di schitarramenti in cui s'innervano sbaffi e scariche elettriche che la movimentano ancora di più.
Mi ha divertito molto, quando ho comprato Giglio, scoprire che una canzone s'intitola Il mio amico - esattamente come quella della Tatangelo. In questo caso, però, l'amico di Tricarico non è gay. La "diversità" di cui canta lui è una diversità totale, su cui si posano due sguardi. Il primo è quello del cantautore, per cui l'originalità dell'amico ha del miracoloso e del prodigioso: "Ecco per esempio volava / E i muri i muri lui li attraversava / Poi in inverno di colpo / I fiori li faceva fiorire / Sapeva anche scomparire e i / gatti morti risvegliare". Quello che per lui è una ricchezza è invece, per gli altri, un difetto (ed è questo il secondo sguardo): se lo portano via, "gli hanno aperto la testa", lasciandogli le cicatrici. L'importante è averlo normalizzato e infatti ora "non sa più far niente / sembra un deficiente". E' uno dei pezzi più orecchiabili e cantabili di tutto l'album e presenta echi decisamente "celentaneschi" - soprattutto quando la melodia si scioglie verso la fine. E, parlando di influenze, la canzone "battistiana" per eccellenza è Cosa vuoi adesso? Lo è sin dagli accordi di chitarra iniziali e dai primi versi sul filo della memoria: "Io non dormo e resto sveglio e ricordo quando ero un ragazzo / La maglietta i pantaloi e le scarpe il giubbotto / Poi a scuola a guardare dalla finestra e a sputarsi addosso". Poi, però, quando deve descrivere la fatica di crescere, vivere e diventare uomo, la melodia diventa più energica e arrabbiata e si capisce che non è affatto quell'idillio battistiano che sembrava all'inizio: "Quante prove nella vita che bisogna sopportare / Quante prove nella vita che bisogna affrontare". L'album si chiude con Libero, che è proprio quello che promette il titolo: un inno alla libertà, che è soprattutto la possibilità di vivere fregandosene delle convinzioni: "Fare l'amore con lei davanti a tutti / Camminare nudo senza vergogna / Baciare un uomo e accarezzarlo". Non vorrei quindi dare l'impressione che Tricarico sia solo "tormentato". No, in tutto questo apparente disagio, c'è una grande vitalità e un forte desiderio di affermarla e di affermarsi ed è il suo lato fanciullesco che rivela, appunto, un incancellabile ottimismo malgré tout. Perché, come canta lui stesso, "in fondo nulla è solo brutto".
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