Sempre più coppie omosessuali desiderano un figlio, lo fanno e lo crescono. Sempre meno hanno paura di dichiararsi. Eccone alcune, con le loro storie e i loro problemi.
(Valeria Gandus - Panorama) Paola Binetti, senatrice teodem del Partito democratico, nega la fiducia al governo per non votare l’emendamento antiomofobia e Costanza Tantillo, impiegata romana, porta al nido la piccola Alice avuta dalla sua compagna Domitilla grazie all’inseminazione artificiale. Massimo D’Alema, ministro degli Esteri, afferma di non essere favorevole al matrimonio fra omosessuali e Micaela Pini, psicologa milanese, fa il bagnetto a Rebecca e Noa, nate nell’unione con Annie Saltzman, sua moglie per la legge americana.
Intanto, a Roma, mentre fa colazione con il figlio Carlo, 11 anni, Francesca Grossi legge sul giornale che a Palermo una mamma ha potuto finalmente riabbraccciare il figlio che le era stato tolto 2 anni prima dal tribunale in seguito all’accusa, da parte del marito, di essere lesbica e di fumare. A lei, per fortuna, non è successo niente di simile: il suo ex marito Luigi non solo le ha lasciato casa e figlio, ma soprassiede sul vizio del fumo e non ha nulla da obiettare alla sua relazione con Alessandra.
Ancora una volta la società cambia e la politica e la legge non se ne accorgono. Come quarant’anni fa, quando il Parlamento fingeva di non vedere le migliaia di coppie che chiedevano di potersi rifare legalmente una vita, o le migliaia di donne che la vita la rischiavano sotto i ferri delle mammane.
Si può non essere d’accordo sulle scelte personali di uomini e donne che decidono di formare una famiglia con un partner dello stesso sesso. Si può avvertire più di un brivido al pensiero di bimbi, concepiti naturalmente o artificialmente, cresciuti da due mamme o da due papà. Ma quelle persone, quei bambini esistono, e sono sempre di più. Negli Stati Uniti, dove si stima che le madri lesbiche e i padri gay siano tra i 6 e i 10 milioni, con un corollario di circa 14 milioni di bambini e ragazzi, compresi quelli concepiti in precedenti relazioni eterosessuali, il fenomeno ha un nome: «gayby boom».
In Italia i numeri sono di gran lunga inferiori, ma comunque significativi: sono migliaia i bambini e i ragazzi cresciuti da genitori gay, secondo i dati a disposizione dell’Istituto superiore di sanità addirittura circa 100 mila (la metà che in Francia) se si calcolano anche i padri e le madri che hanno riconosciuto la propria omosessualità dopo la nascita del figlio. Da una ricerca dei sociologi Marzio Barbagli e Asher Colombo emerge che il 3,4 per cento dei gay intervistati è padre mentre il 5,4 delle lesbiche è madre. Percentuali che salgono rispettivamente al 10 e al 19 per cento per gli omosessuali di età superiore ai 35 anni.
Ma la maggiore novità è il crescente numero di coppie di omosessuali che vorrebbero avere figli: il 49 per cento, secondo un sondaggio dell’americana Kaiser family foundation. E di quelle che ci riescono.
Sono soprattutto donne, lesbiche che chiedono aiuto ad amici gay o che emigrano all’estero, nelle cliniche dove si pratica l’inseminazione artificiale proibita in Italia dalla legge 40. Le (poche) coppie di omosessuali maschi con un incontenibile desiderio di paternità trasvolano invece l’oceano per affidarsi alle cure di agenzie canadesi e americane che procurano, legalmente, madri surrogate.
Dati ufficiali non ne esistono, ma Giuseppina La Delfa, presidente dell’Associazione famiglie Arcobaleno (nuclei familiari che hanno al proprio interno almeno un genitore o aspirante tale omosessuale), dice che le famiglie associate (oggi oltre 160) sono in continua crescita: «Abbiamo in media una nuova iscrizione a settimana e i bambini con due genitori omosessuali sono una sessantina».
Giuseppina e la sua compagna Raphaelle Hoedts, francesi trasferitesi 17 anni fa in Italia, in un paese della provincia di Avellino, sono fra le pioniere del nuovo corso alla maternità omosessuale. Compagne dai tempi del liceo, unite dal pacs (l’unione civile in vigore in Francia) registrato al consolato di Napoli, entrambe docenti di francese all’Università di Salerno, hanno deciso di mettere su famiglia 7 anni fa, quando avevano entrambe 37 anni. «La mamma biologica avrebbe dovuto essere Raphaelle e infatti, all’ospedale belga cui ci siamo rivolte, hanno scelto un donatore che le assomigliasse». I tentativi di fecondazioni semplici e in vitro sono stati moltissimi: «Tre anni di viaggi a Bruxelles e di aspettative deluse». Un calvario. Finché Giuseppina non ha deciso di cimentarsi al posto di Raphaelle. «E alla prima Fivet sono rimasta incinta».
La bimba, Lisa Marie, oggi ha 4 anni e mezzo e frequenta la scuola materna locale. «È una bambina felice, allegra, di buon carattere» dicono le madri. Merito della serenità familiare. Ma anche dell’accoglienza che ha avuto dalle maestre, dai compagni e dai loro genitori: «A tutti abbiamo detto sempre e soltanto la verità. E la verità paga. I pregiudizi esistono, certo. Ma quando genitori e insegnanti ci conoscono e vedono che quelle omosessuali sono famiglie come le altre, tutto scorre liscio». Anche le bambine di Micaela Pini e Annie Saltzman (Rebecca, 8 anni e Noa, 6) sono perfettamente integrate a scuola: «E pure noi» aggiunge Annie, americana da 28 anni in Italia. «Al punto che i genitori dei loro compagni ci lasciano i figli molto volentieri».
Annie e Micaela (erede quest’ultima della famiglia che a Milano ha dato due grandi ospedali, il Gaetano Pini e il Paolo Pini) per concepire le loro figlie hanno chiesto aiuto al migliore amico di Annie, l’informatico americano Lenny Feldstein, che ha donato il seme e riconosciuto le bambine. «Ho sempre desiderato avere dei figli» spiega Lenny «e quando Annie me l’ha chiesto ho accettato volentieri».
Ma perché non averli in una famiglia tradizionale, con una compagna? «Finora non mi è capitato di incontrare la donna della mia vita, mentre so che Annie e Micaela sono le mamme giuste per le mie figlie».
Il loro è un caso un po’ anomalo anche nel mondo non certo ortodosso della genitorialità omosessuale. In genere le aspiranti mamme lesbiche se non ricorrono a una banca del seme si rivolgono a un amico gay o a una coppia di omosessuali maschi con cui condividono maternità e paternità.
E l’anomalia è ancora più forte se si considera che Annie è americana e che, dall’anno scorso, è legalmente unita in matrimonio con Micaela e ha ottenuto di conseguenza tutti i diritti del caso, anche quelli di genitore: «Ci siamo sposate nel Massachusetts, l’unico stato americano che consente il marimonio e non la semplice unione civile» raccontano. In base alla legislazione dello stato, Annie avrebbe potuto adottare le bambine. «Ma non ho voluto togliere a Lenny il ruolo di padre, che svolge con amore e delicatezza. Mi fido di lui».
Come tutte le altre coppie omosessuali con figli, però, Annie e Micaela si sono tutelate con scritture private dove si afferma che la madre non biologica ha il diritto-dovere di provvedere ai bisogni morali e materiali delle figlie. Anche se, in realtà, questi contratti servono a poco: in caso di dissidio o separazione di una coppia omosessuale, per legge l’unico ad avere diritti e doveri è il genitore biologico.
«Proprio recentemente a Milano è stata respinta dal tribunale dei minorenni la domanda presentata da una madre non biologica di vedersi riconoscere l’affidamento condiviso e il diritto di visita per i figli avuti dall’ex partner e cresciuti con lei» dice Susanna Lollini, avvocato specializzato nelle problematiche delle famiglie omosessuali. «Purtroppo la mancanza di un qualsiasi riconoscimento delle unioni gay si ripercuote sul destino dei figli. Chi sostiene che al posto dei pacs o dei dico basta un normale contratto privato sbaglia di grosso: un accordo del genere può tutelare, eventualmente, soltanto il partner ma non il genitore non biologico, oltre che i figli».
Per tutelarsi, molte coppie omosessuali cercano di ufficializzare almeno un po’ il loro rapporto iscrivendosi nello stesso stato di famiglia (la legge consente di creare una famiglia anagrafica anche tra non consanguinei) o ai registri delle unioni civili disponibili in una trentina di comuni italiani (nella Roma del sindaco Walter Veltroni e del Vaticano è appena fallita la battaglia per istituirne uno). Ma i vantaggi sono simbolici e in compenso ci sono gli oneri. Fiscali: i redditi si sommano e le tasse aumentano.
Essere genitori come gli altri, con gli stessi diritti e gli stessi doveri: questo chiedono le coppie omosessuali. Ma la società italiana è pronta ad accettare questa rivoluzione o è d’accordo con il ministro della Famiglia Rosy Bindi, quando sostiene che «il desiderio di maternità e paternità un omosessuale se lo deve scordare»? Il timore è che i figli delle coppie omosessuali paghino le scelte dei genitori con problemi psicologici e di crescita. Ma è proprio così?
Nel suo saggio, Citizen gay, appena pubblicato dal Saggiatore, lo psichiatra Vittorio Lingiardi, docente all’Università La Sapienza di Roma, cita numerosi studi che lo negano. «La ricerca scientifica disconferma queste preoccupazioni e stabilisce che i figli di genitori omosessuali sono psicologicamente sani e adattati in percentuali sovrapponibili ai figli cresciuti in famiglie eterosessuali». Fra gli studi citati nel saggio, quello del 2005 dell’American academy of pediatrics afferma che «non c’è relazione fra l’orientamento sessuale dei genitori e qualsiasi tipo di misura dell’adattamento emotivo, psicosociale e comportamentale del bambino (...). Un bambino che cresce in una famiglia con uno o due genitori gay non corrre alcun rischio specifico».
Una tesi confortata dall’esperienza diretta di Laura Pierella, da 25 anni educatrice in una scuola materna del Milanese, che ha avuto in classe tre fratellini figli di una coppia lesbica. «Bambini normalissimi» li definisce. «Sereni come le loro mamme. Non abbiamo avuto nessun tipo di problema né con loro né con i compagni. Non so se accade così anche per le altre famiglie gay, ma questa ha certamente allevato bambini felici e consapevoli di avere l’amore di due mamme».
In realtà, gli stessi genitori gay si pongono problemi sul futuro dei propri bambini per l’impatto che la loro condizione di «figli di omosessuali» potrebbe avere sulla società: «All’inizio non ci dormivo la notte: avrò fatto la cosa giusta? Soffriranno? Verranno feriti dal mondo?» si chiedeva Giuliana Beppato, milanese, 41 anni, psicologa, con Elena Mantovani, vigile urbano, mamma di tre bimbi: Federico, 8 anni, e i gemelli Sara e Joshua, 6, tutti nati con inseminazione artificiale effettuata in una clinica olandese. «Molte cose sono cambiate negli ultini anni, ma temevo che la società non fosse ancora del tutto pronta ad accogliere famiglie così diverse, avevo paura della reazione dei vicini e di quella delle mamme che mi portano i loro figli (sono terapeuta infantile). Ma mi sbagliavo, anch’io avevo dei pregiudizi: le persone spesso sono migliori di quanto crediamo e noi gay possiamo essere i peggiori nemici di noi stessi».
È un discorso che torna anche nelle parole di Delfina Esposito, 30 anni, romana trapiantata a Napoli per amore di Marta, 29, e con lei madre di Alessandro. «Lavoro alla base americana presso l’aeroporto di Capodichino: un ambiente militare, teoricamente conservatore. E invece ho incontrato solo affetto e solidarietà. Prima della nascita del bambino i colleghi mi hanno organizzato una “baby shower”, una festa di benvenuto per il nascituro secondo le loro usanze. Per non parlare dei vicini di casa, in gran parte militari della base: al ritorno dall’ospedale abbiamo trovato pacchi di regali davanti alla porta».
E le famiglie d’origine, come prendono l’arrivo di una cicogna così anomala? «Mia madre ci aveva messo un po’ ad accettare la mia omosessualità, che peraltro ho capito io stessa tardi, a trent’anni» dice Costanza Tantillo, 42 anni, mamma non biologica di Alice, 10 mesi, occhi azzurrissimi e boccoli d’oro. «L’annuncio dell’arrivo della bimba, invece, non l’ha turbata affatto: è affezionatissima a Domitilla, la mia compagna, ed è felice per la nostra felicità. Ogni sabato andiamo a pranzo da lei: ci sentiamo, e siamo, una famiglia normalissima».
Ma se è così, perché Domitilla non vuole dire il suo vero nome e come Marta, la compagna di Delfina, non accetta di farsi fotografare mostrando il volto? «Lavoro in un ufficio pubblico, i colleghi hanno una mentalità molto ristretta» dice Domitilla. «Mi sono laureata da poco in economia e cerco lavoro, non vorrei che questa maternità atipica fosse un handicap» aggiunge Marta.
Chi invece non ha mai nascosto la sua omosessualità scoperta tardi, dopo la separazione dal marito, è Francesca Grossi, informatica e membro della segreteria dell’Arcigay. Il bell’appartamento borghese a Monteverde, dove Francesca vive con il figlio Carlo, oggi undicenne, è nello stesso palazzo dove abitano le zie del bimbo, sorelle dell’ex marito, che non l’hanno abbandonata dopo la separazione ma la sostengono e sono molto presenti con il nipote. Anche l’ex marito ha un legame profondo con lei, tanto che quando viene a Roma (abita al Nord) dorme nella sua stessa casa. E tutti, a cominciare da Carlo, vanno d’accordissimo con Alessandra Filograno, addetta stampa, una lunga militanza nel Partito radicale dove è stata fra i promotori della campagna contro la pena di morte.
Carlo è orgoglioso della sua particolare famiglia: «Agli amici più sinceri ho detto che la mamma è lesbica» racconta con marcato accento romanesco. «A quelli delle elementari non gliene fregava niente». E a quelli delle medie? «Nun ce credono!».
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