All’appuntamento cruciale col voto nero la campagna di Hillary Clinton arriva seriamente danneggiata. Certo in New Hampshire la senatrice ha evitato l’umiliazione di un’altra sconfitta come quella che aveva subito in Iowa: per un pugno di voti, circa 8 mila, Hillary è riuscita a tenere in vita una candidatura che sembrava ormai moribonda. Ma non ha potuto evitare una sorte se possibile anche peggiore: che milioni di americani smettessero di immaginare un ritorno dei Clinton alla Casa Bianca e cominciassero a sognare invece una first family che pare uscita da uno spot di Gap. O di United colors of Benetton, come preferisce dire Barack Obama, sempre attento a sottolineare la propria multirazzialità.
Ecco allora che Chelsea esce dalla foto ricordo del progressismo Usa. E al suo posto entrano Sasha e Malia, le due bambine di 6 e 9 anni che Barack Obama mette ogni sera a letto raccontando loro una favola in videoconferenza sul Macintosh. Non il vecchio Bill ma la sinuosa Michelle, avvocato col fisico modellato da 200 salti di corda ogni mattina. E, al centro del ritratto di famiglia, il sorriso beffardo di un nuovo seduttore americano capace di ammaliare con la sua retorica da telepredicatore del Midwest persino i sondaggisti che lo danno per vincente anche quando in realtà sta per perdere.
Ironia della sorte, l’ultimo politico americano che aveva generato tanto entusiasmo era stato proprio Bill Clinton nel 1992. Ma il paragone porta alcuni a pensare che alla base del culto di Obama, nuovo fenomeno massmediologico, non ci sia solo una questione di talento politico: «I Clinton arrivarono sulla scena promettendo all’America nuovi valori anche sul piano personale, ma non lo hanno fatto: mentre parlavano di nuova coppia spuntavano da tutte le parti le amanti di lui» spiega Larry Sabato, politologo dell’Università della Virginia. «Gli Obama magari talvolta battibeccano in pubblico, ma sai per certo che si tratta di una famiglia veramente unita. È proprio questa sincerità a rendere Obama una creatura politica nuova: il messaggio politico è la sua storia».
Che anche in Obama, come spesso si dice di Hillary Clinton, ci sia qualcosa di prefabbricato è evidente: non a caso la sua carriera politica è basata su due libri autobiografici che hanno guidato le vendite per oltre due anni. Letterato prestato alla politica (tra gli autori preferiti Jorge Luis Borges), Obama ha raccontato se stesso come nessun leader americano aveva fatto prima. E come sicuramente Hillary ha evitato accuratamente di fare nella sua autobiografia. Tutti ormai sanno della sua vita divisa tra il bianco (la madre del Kansas) e il nero (il padre keniota), dell’infanzia passata tra le Hawaii e l’Indonesia, della scuola di legge ad Harvard abbandonata per lavorare nei ghetti di Chicago. Ma, anziché stufare o risultare stucchevole, la sua storia entusiasma non solo la stampa liberal come Newsweek (che gli ha dedicato due copertine) o quella glamour alla Men’s Vogue (il primo magazine a dargli la copertina, mobilitando la fotografa Annie Leibovitz), ma anche un feroce critico come il giornalista conservatore Richard Lowry: «Se non capisci cosa significherebbe una sua vittoria, non sei americano. Questo è un ragazzo che 50 anni fa non sarebbe potuto entrare nemmeno nei bagni dei bianchi».
Per sintetizzare l’entusiasmo che Obama raccoglie a destra, l’iconoclasta commentatore gay Andrew Sullivan parla di «Obama republicans», conservatori convertiti come i Reagan democrats di un tempo. Mentre Peggy Noonan, che di Reagan scriveva i discorsi, dice che a Obama per battere Hillary bastano la classe e la capacità di unire anziché dividere.
Il vero banco di prova di questo scenario verrà proprio dal voto in South Carolina, a cui i democratici arriveranno dopo una tappa minore in Nevada il 19 gennaio. Per Obama si tratterà di un incontro con il proprio destino: popolare tra i bianchi, finora il senatore è riuscito a non deludere i neri parlando però solo raramente dei loro problemi. Non lo ha fatto neppure dopo la tragedia dell’uragano Katrina, quando ha stupito i leader afroamericani dicendo che l’incompetenza è incapace persino di riconoscere i colori, e che se si era verificata una discriminazione era stata contro i poveri. Solo più di recente Obama ha cominciato a riposizionarsi nei confronti degli afroamericani, con una serata all’Apollo Theater di Harlem e l’incontro con Oprah Winfrey che ha radunato 29 mila persone nello stadio di Columbia in South Carolina.
Per alcuni la sterzata è arrivata troppo tardi, e i leader afroamericani non sono convinti di potersi fidare di quel politico che torna a essere nero solo sul campo di basket, dove strattona gli avversari e si vanta dei suoi tiri come un ragazzino del ghetto. Non credono a Obama i personaggi neri come l’attore Denzel Washington, il regista Spike Lee o la scrittrice Toni Morrison, che nonostante l’esempio di Oprah Winfrey non hanno ancora finanziato il senatore. E metà del Black congressional caucus, che raduna i deputati afroamericani, appoggia Hillary per il lavoro a difesa dei bambini poveri e per l’assistenza legale ai giovani neri.
Divisa è la famiglia di Jesse Jackson, che nell’88 con la sua campagna presidenziale infiammò la comunità nera. Lui appoggia Obama, amico dei suoi figli, mentre sua moglie si è schierata con Hillary. E anche Al Sharpton, l’altro grande leader afroamericano, non ha ancora deciso se appoggiare la moglie di Bill Clinton, che considera il primo presidente nero della storia americana, oppure quello che potrebbe diventare il primo vero nero a occupare la Casa Bianca. Con Barack per ora ha solo pranzato una volta: «Certo la sua elezione sarebbe un evento storico, ma ci sono anche problemi veri che vanno risolti, e per quelli la storia non basta».
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