(Cadavrexquis) Padri e madri italiani cercano di trattenere il più a lungo possibile i figli nel loro ruolo di figli. Superata un'età in cui è indecoroso essere considerati ancora alla stregua di minorenni da essere accuditi, ci sono uomini grandi e grossi che vengono salutati dalla mamma italiana con frasi del tipo "il mio bambino!", accompagnate dall'occhio umido e da ricatti nemmeno troppo sotterranei se il bambino in questione cerca di sottrarsi a questo abbraccio mortale. Tuttavia c'è un momento in cui anche i genitori più ostinati sono costretti a rassegnarsi alla realtà delle cose: i loro figli sono diventati adulti. In genere questo momento coincide con il matrimonio e, in Italia, con l'uscita di casa degli adorati pargoli. Il figlio viene riconosciuto in quanto adulto - anche se di malavoglia - quando crea la sua famiglia. Vittime designate di una perenne bambinizzazione sono invece i gay. Il figlio che non si sposa e non forma una famiglia (in senso tradizionale) - anche perché per legge non gli è consentito farlo - viene, a maggior ragione, fagocitato dalla famiglia d'origine: mamma e papà hanno una scusa in più per vedere in lui il bambino che non è più. (Tra l'altro, un riconoscimento pubblico delle unioni gay - e delle relative famiglie che ne risulterebbero - servirebbe anche, in certa misura, a rendere adulti i gay stessi, innanzitutto ai loro stessi occhi, oltre che a quelli dei genitori). Di riflesso, lo sguardo dei genitori inchioda il figlio a una perenne infanzia, tanto che lui stesso finisce a volte per convincersene e non di rado si comporta di conseguenza. Il figlio omosessuale, anche se è uscito di casa e vive la sua vita indipendente, non è ancora un adulto vero e proprio, ma resta una propaggine, un'estensione dei genitori. La sua autonomia non è presa sul serio: siccome non si è formato a sua volta una famiglia, l'unico ruolo in cui può essere incastrato è quello di figlio. Figlio minorenne, il mio bambino, insomma. Lo avranno notato in prima persona tutti quei gay che, vivendo lontano dalla famiglia d'origine, vi rientrano per le feste comandate e sono circondati da fratelli, cugini o parenti vari accasati e quindi, ipso facto, "adulti", mentre loro no, restano sempre "figli di". E' anche per questo motivo che ai più sensibili - e permalosi - tra di noi sono particolarmente invise le feste comandate: perché accade qualcosa che ci risucchia verso le nostre origini, bambinificandoci, un po' come accade al protagonista di Ferdydurke, il romanzo di Witold Gombrowicz, che una mattina si sveglia ed è di colpo trattato da tutti come se fosse un bambino. Questo è un vulnus di cui fatichiamo a liberarci, perché ci resta attaccato addosso, come un odore fastidioso o come una seconda pelle. E' vero, almeno in parte, che, così come veniamo percepiti, noi ci percepiamo a nostra volta, sicché occorre uno sforzo in più per uscire da questa coazione a ripetere. Soprattutto in un paese familista come il nostro, dove la tendenza delle famiglie a fagocitare gli individui è comunque molto forte. Così, molto spesso, quando faccio qualche nuova conoscenza - e tasto il terreno per capire se questa conoscenza possa svilupparsi in una relazione - mi sorge il dubbio di non avere conosciuto una persona adulta ma il "figlio di sua madre" o di essermi imbattuto in un'offerta del tipo "paghi uno (un uomo) e prendi due (l'uomo e sua madre o suo padre)": insomma, il mio uomo ideale è quello la cui mente non è colonizzata in modo permanente dai genitori e che perciò non sente il bisogno di vedere mammà ogni fine settimana. Quella che in questo paese bisogna ingaggiare è una battaglia culturale. Se è vero che per diventare adulti bisogna, metaforicamente, uccidere il padre e la madre, è altrettanto vero che anche i genitori devono, a loro volta, uccidere i figli per consentire loro di crescere. E se non sanno farlo da soli, bisogna aiutarli in quest'impresa rifiutando, in primo luogo, di farsi trattare da bambini - anche se questo comporta la perdita di alcuni piccoli privilegi e comodità.
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