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domenica 16 dicembre 2007

Omofobia e libertà di pensiero. L'opinione de "L'Osservatore romano".

L'orizzonte etico del confronto

(Adriano Pessina - L'Osservatore romano) L'attuale dibattito, italiano e no, sull'omofobia apre una serie di questioni teoriche che hanno anche risvolti pratici. Il tema dell'omofobia è di solito presentato all'opinione pubblica all'interno del tema dell'intolleranza e dell'ingiusta discriminazione attuata nei confronti di persone che compiono scelte di tipo omosessuale. Se la questione fosse ricondotta entro questi termini si dovrebbe incoraggiare ogni iniziativa che tenda a combattere la cosiddetta omofobia.

Già nel 1986 la Congregazione per la Dottrina della Fede, nella Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica per la cura pastorale delle persone omosessuali si era chiaramente espressa in questi termini: "Va deplorato con fermezza che le persone omosessuali siano state e siano ancora oggetto di espressioni malevoli e di azioni violente. Simili comportamenti meritano la condanna dei Pastori della Chiesa, ovunque si verifichino. Essi rivelano una mancanza di rispetto per gli altri, lesiva dei principi elementari su cui si basa una sana convivenza civile. La dignità propria di ogni persona dev'essere sempre rispettata nelle parole, nelle azioni e nelle legislazioni" (art. 10).
Ogni convivenza umana, infatti, non può che basarsi sul rispetto reciproco e dovrebbe (ma non sempre è così) riconoscere che la dignità personale è intrinseca ad ogni persona umana, in tutte le fasi della sua vita. Questo riconoscimento, in fondo, non è altro che la traduzione in termini etici del principio di uguaglianza. Ma questo principio non determina di per sé il riconoscimento del valore della pratica omosessuale, né basta per affermare una sorta di indifferenza nei confronti delle scelte delle persone, omosessuali o eterosessuali. L'omosessualità, maschile e femminile, resta, infatti, una questione aperta laddove diventi motivo per negare le differenze e per soffocare il dialogo pensante. Questione che, sul piano clinico, oggi vorrebbe essere chiusa. Infatti, benché Freud e la sua scuola abbiano interpretato l'omosessualità come un disturbo della personalità, nel 1973 l'associazione psichiatrica americana, a maggioranza, ha deciso di togliere l'omosessualità dall'elenco delle malattie psichiatriche, scelta confermata nel 1984 dall'Organizzazione Mondiale della Sanità.
Da quel momento in poi si è ritenuto che definire malata una persona omosessuale significasse recarle un'offesa e, quindi, esercitare, nei suoi confronti, un atteggiamento intollerante. Il termine omofobia - che di per sé significa paura dell'identico - viene, quindi, introdotto per indicare un atteggiamento discriminatorio nei confronti delle persone omosessuali e viene equiparato al razzismo. Il 18 gennaio 2006 il Parlamento Europeo adotta una Risoluzione contro l'omofobia; il 25 giugno 2006 il Parlamento Europeo approva una Risoluzione per combattere il razzismo e la violenza omofobica. In quel testo, l'omofobia viene definita "come una paura irrazionale o un'avversione contro l'omosessualità e il lesbismo, i gay, le persone bisessuali e transessuali basata sul pregiudizio e perciò simile al razzismo, alla xenofobia e al sessismo". Il Parlamento europeo "sollecita vivamente gli Stati membri e la Commissione a intensificare la lotta all'omofobia mediante un'azione pedagogica, ad esempio attraverso campagne contro l'omofobia condotte nelle scuole, le università e i mezzi d'informazione, e anche per via amministrativa, giudiziaria e legislativa". Ora, si deve notare che tra gli atti che vengono considerati discriminanti c'è il fatto che i "partner dello stesso sesso non godono di tutti i diritti e le protezioni riservati ai partner sposati di sesso opposto, subendo di conseguenza discriminazioni e svantaggi".
Queste affermazioni meritano qualche pacata riflessione. In primo luogo va detto che si potrebbe condividere la condanna dell'omofobia senza per questo condividere l'affermazione che l'omosessualità non sia una patologia. Da un punto di vista logico, infatti, non si capisce perché definire qualcuno malato significhi offendere qualcuno: la malattia, di per sé, non è una colpa e non può essere annoverata tra gli insulti, ma tra le definizioni. Se qualcuno mi dicesse, per esempio, che sono cardiopatico, potrei rispondergli che si sbaglia, ma non che mi offende. Di fatto, per lungo tempo, purtroppo, c'è stato un uso indegno della definizione di una patologia come mezzo per stigmatizzare le persone, identificate con la loro patologia, come è avvenuto per le persone affette da sindrome di Down. Togliere lo stigma sociale alle patologie è un compito che resta da attuare e che non può mai dirsi esaurito. Una patologia non definisce una persona e una persona non è mai la sua patologia.
Si potrà dire che è sbagliato il giudizio clinico formulato fino agli anni Settanta, ma non si potrà concludere che quella valutazione era soltanto una forma di discriminazione o di intolleranza. Ora, poiché la psichiatria e la medicina ufficiale tendono ad escludere che l'omosessualità sia una malattia, non resta che annoverare l'omosessualità nell'ambito degli atteggiamenti personali, delle scelte, delle decisioni di stili di vita.
Ma se l'omosessualità è una scelta libera, uno stile di vita, un certo modo di essere e di esistere, allora resta aperta la questione, che vale per qualsiasi scelta di vita e di modo di essere - come quello eterosessuale, per esempio - di come debba essere valutata, di come, e se, debbano essere socialmente e giuridicamente tutelate le relazioni di tipo omosessuale.
Non basta, infatti, che una scelta sia libera, che un certo modo di essere sia autentico, perché debba essere tutelato, difeso e promosso socialmente e giuridicamente. Il rispetto delle persone va al di là dei loro stili di vita, ma non implica che si debbano apprezzare e condividere anche i loro stili di vita. Si possono "comprendere" certe scelte anche se non le si condividono e anche se si ritiene che non debbano godere di una particolare promozione, senza per questo essere giudicati intolleranti. Discriminare, di per sé, significa distinguere, distinguere significa differenziare e il differenziare e il distinguere non costituiscono alcuna ingiustizia fintanto che non si è dimostrato che queste differenze non esistono. Ora, che l'omosessualità non sia identica all'eterosessualità è evidente: una volta appurato che omosessualità ed eterosessualità sono scelte o modi di relazione, resta aperta la questione teorica della loro valutazione.
Qualsiasi comportamento, infatti, può essere valutato, lodato, biasimato, incoraggiato o no. Un conto, infatti, è il giudizio sulle persone, un altro, invece, è la valutazione dei comportamenti. Così, per esempio, si può dissentire nei confronti della poligamia o, per esempio, della poliandria e ritenere che essa non debba venire tutelata o difesa socialmente. Si può apprezzare l'amicizia e la si può praticare, ma si può anche ritenere che non debba essere giuridicamente tutelata, a differenza di altre relazioni che si ritiene, invece, per vari motivi, di tutelare o vietare (come, per esempio la poligamia o la poliandria).

Il fatto che l'omosessualità non sia né una colpa, né una devianza, né una malattia comporta semplicemente che, come ogni scelta, decisione, pratica relazionale, venga valutata, apprezzata o biasimata. C'è chi non apprezza la pratica della castità, la difesa della verginità, ma non per questo si fanno leggi per tutelarle socialmente e per rieducare chi non condivide questi stili di vita.

Se negli orientamenti sessuali non c'è confine tra normale e patologico, c'è però confine tra ciò che si ritiene moralmente legittimo o no.
Che, storicamente, si siano commessi abusi e ingiustizie nei confronti di persone omosessuali è vero: che oggi questo non deve più accadere è giusto. Ma assimilare quelle ingiustizie alla formulazione di valutazioni etiche che non condividono l'esercizio delle prassi omosessuali, che non condividono l'equiparazione del matrimonio alle unioni omosessuali, è ingiusto ed è lesivo della libertà di pensiero, di opinione e di valutazione. La stessa nozione di omofobia lascia perplessi: l'omofobia sarebbe una nuova forma di patologia socio-culturale da controllare e punire? Nei confronti degli omofobi sarebbe giusto praticare forme di correzione e di biasimo, analoghe a quelle che un tempo alcuni invocavano per le persone omosessuali? E chiunque non condivida l'esercizio della prassi omosessuale può essere definito omofobo?
Ma se l'omosessualità è prassi normale come l'eterosessualità, se è scelta libera e volontaria, perché non può essere discussa e valutata alla stregua dell'eterosessualità? Non tutte le scelte e le relazioni eterosessuali sono da lodare e da incoraggiare: perché mai si può discutere di queste, mentre sarebbe un tabù discutere delle relazioni omosessuali? Qualsiasi persona omosessuale non si sentirebbe in realtà discriminata proprio dal fatto che le proprie azioni godrebbero, a differenza delle azioni e delle scelte degli eterosessuali, di una sorta di tutela preventiva? La persona omosessuale non sarebbe, ancora, posta in una condizione di minorità visto che le sue scelte, i suoi stili di vita, le sue decisioni sarebbero, per definizione, per legge, sottratte a qualsiasi valutazione? L'omofobia, se è ingiustizia, non è né paura né patologia, è un errore che va discusso e corretto nel libero confronto tra persone: i campi di rieducazione di chi ha valutazioni non corrispondenti al pensiero dominante dovrebbero essere storia passata. Alcuni aspetti delle risoluzioni sull'omofobia rischiano di essere simili alla logofobia, cioè alla paura del pensiero, del confronto, della libera discussione. E alla logofobia dovremmo sottrarci tutti, eterosessuali e omosessuali, gay o lesbiche, transessuali o no, se vogliamo prima di tutto riconoscerci come persone, cioè come amanti del lògos che è garanzia per la libertà del valutare, del giudicare, del vivere insieme.
Ma per discutere e per praticare il rispetto reciproco, che è molto di più della semplice tolleranza, occorre riconoscere un terreno comune, bisogna condividere un orizzonte di valori.

Non è vero che il puro soggettivismo etico garantisce il rispetto reciproco. Per rispettare gli altri è necessario comprenderli e per comprenderli bisogna riuscire ad usare, per così dire, un linguaggio comune. Il riconoscimento sociale richiede che si riesca a motivare il valore che viene espresso nella scelta personale, richiede, pertanto, che si costruisca un orizzonte di significati condivisi e condivisibili, richiede un dialogo e un confronto che vada ben al di là della semplice opzione personale.

Un puro soggettivismo etico impedisce questo dialogo proprio perché esclude la commensurablità delle valutazioni e delle scelte. Se il fondamento del valore fosse la pura scelta, in nome di che cosa si potrebbe biasimare la scelta di essere omofobi, intolleranti, razzisti, sessisti qualora fosse, appunto, una libera scelta? Nessuno stato laico o aconfessionale può usare la nozione di giustizia, può appellarsi al rispetto dei diritti e dei valori senza introdurre esso stesso valori e criteri che permettano di distinguere il giusto dall'ingiusto, il lecito dall'illecito. Il dibattito sull'omofobia potrebbe costituire un'occasione per riaprire un dialogo serio e argomentato sulle ragioni e sui valori che permettono una convivenza umana dotata di senso e di rispetto, capace di non trasformare una legislazione contro l'intolleranza in una nuova forma di intolleranza verso chi pensa in modo diverso.

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